(31.01.08)
di Luca FRIGERIO
Gli apostoli sono ammutoliti, sorpresi per quanto sta capitando quella sera. Vedono, ma non comprendono. Almeno non tutto, non fino in fondo. «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo». Di quale straordinario mistero, di quale prodigioso evento sono testimoni e protagonisti in quella cena, l’ultima prima che il Cristo sia catturato come un delinquente e ucciso sulla croce? Sergei Chepik illustra per l’ennesima volta nella storia dell’arte occidentale l’episodio dell’istituzione dell’Eucaristia, ma lo fa con personalissima, vibrante sensibilità. Un’opera, questa, oggi per la prima volta presentata al pubblico in occasione della mostra che il Centre culturel français di Milano gli dedica presso la sua Galleria di corso Magenta 63, a pochi passi dal Cenacolo di Leonardo da Vinci.
Nato a Kiev cinquantatre anni fa, esule a Parigi dopo gli ostracismi dell’agonizzante regime sovietico, Chepik si confronta con il grande patrimonio iconografico della Madre Russia , rielaborandolo in una visione di assoluta attualità e in una prospettiva intimamente religiosa. Le macerie della dittatura comunista, le disillusioni della società dei consumi, i drammi della Cecenia sono i temi contemporanei che traboccano dalle sue tele, confondendosi e mischiandosi con le pagine bibliche, come un vortice inarrestabile in cui tutto può essere annientato. Ma anche salvato.
Colpiscono, delle figure dipinte da Sergei, gli sguardi attoniti, allucinati, come di chi è costretto a confrontarsi con verità insostenibili, abissi di miserie o inferni di solitudine. Eppure, su questa umanità dolente che prende il colore stesso del fango in cui è stata plasmata e in cui si dibatte, su queste mani piagate da un lavoro che schiaccia, su quei volti invecchiati da troppe delusioni, si riverbera infine, redentrice, la luce del Risorto.
Oggi le opere a tema sacro di Sergei Chepik ricoprono le pareti di cattedrali come quella di St Paul, a Londra. Ma veramente ogni suo lavoro, anche quelli dichiaratamente profani, sembrano recare in sè un afflato spirituale, nel segno nervoso e inquieto, nel colore impastato di sudore e sorrisi, nelle ombre che nascondono e che svelano. Composizioni colme di richiami alla tradizione , nella consapevolezza che, anche nell’arte, soprattutto nell’arte, non si può fare tabula rasa dell’esperienza e delle conquiste di chi ci ha preceduto. Ma anche ricche di intuizioni nuove, di soluzioni sorprendenti, che colpiscono al primo sguardo, che convincono ad analisi più attenta.
In diversi di questi dipinti, protagoniste sono le campane. Si racconta che Ivan il Terribile , dopo aver assoggettato la libera repubblica di Novgorod, abbia ordinato di frustare nella pubblica piazza la campana che chiamava a raccolta il popolo in assemblea, facendola poi deportare in Siberia . Campane che, soprattutto per l’anima russa, sono ben più di un richiamo o di un simbolo. Campane che scandiscono la vita quotidiana . Campane che annunciano eventi felici o mettono in guarda da pericoli imminenti. Campane che suonano il lutto, ma anche la Pasqua. Chiamando a una rinata speranza.
SERGEI CHEPIK: EPIFANIA
Fino al 15 febbraio.
Galleria del Centre culturel français
(corso Magenta 63, Milano)
orari di apertura: lunedì al venerdì ore 10.00 – 19.00
Ingresso libero.
Per informazioni: tel. 02.4859191
www.lecentreculturelfrancaisdemilan.it