di Ylenia SPINELLI
11/01/2008
«Un giorno mi sono messo davanti al mio pc portatile e ho iniziato a scrivere questa storia. Mi è venuto naturale, perché era come se un uomo in carne ed ossa si fosse seduto accanto a me ed avessimo incominciato a dialogare». E’ così che è nato Eloì Eloì , il romanzo dell’esordiente Alen Custovic, vincitore della prima edizione del premio Alberto Falck , indetto dalla Fondazione Ambrosianeum di Milano e riservato a un’opera inedita, ispirata alla concezione cristiana della vita, capace di rappresentare la speranza e l’inquietudine dell’uomo, fra i contrasti e la complessità della società contemporanea.
E i dilemmi dell’esistenza Alen li ha vissuti sulla propria pelle sin da quando, ancora ragazzino, ha visto le bombe cadere sulla sua Mostar e ha dovuto fuggire. Era il 1993 e come profugo di guerra , aiutato dalle organizzazioni umanitarie che operavano in Bosnia, con la madre e il fratello più piccolo, ha raggiunto la Sardegna, in seguito anche il padre ha potuto ricongiungersi con la famiglia.
Ora ha 26 anni, ha sposato un’italiana e vive a Paderno Dugnano. La sua passione di sempre è la scrittura e chissà che questo libro, c he verrà pubblicato prossimamente da Mondadori, non gli porti fortuna.
Alen, come ha saputo di questo concorso?
L’ho letto circa un anno fa su un settimanale, ho approfondito la cosa e ho deciso di partecipare, perché la tematica era molto bella e da me molto sentita. E’ da quando ero bambino che scrivo racconti e pensieri in forma privata, ho sempre pensato che la scrittura è un canale di espressione di ciò che hai dentro.
Come mai la scelta di un titolo biblico, forse la religione è al centro del suo romanzo?
No, non era l’aspetto religioso ad interessarmi, quanto piuttosto la fede e la speranza. Nella parole in aramaico che Gesù ha pronunciato sulla croce prima di morire non ho voluto vedere un grido religioso, ma un grido di speranza di qualsiasi persona che si trovi in una situazione di disperazione.
E’ stato anche il suo grido?
Certo, in questo libro, che copre un arco temporale di circa trent’anni, c’è un pezzo di storia della mia terra e, senza fare un’autobiografia, attraverso la voce dei due protagonisti ho voluto ripercorrere ciò che è accaduto a me, alla mia famiglia e a tanti miei amici durante gli anni della guerra. Nel romanzo si parla di Emir, un musulmano bosniaco che ha conosciuto il comunismo e la lotta interetica che lo ha trasformato in guerrigliero impietoso e feroce. Giunto in Italia incontra Armando, un ex prete cattolico che le tante contraddizioni della vocazione e della vita hanno confinato in una profonda cognizione del dolore. Entrambi sono in conflitto con se stessi e cercano una conciliazione che dia senso al loro passato per guardare al futuro.
Lei è credente?
Sono figlio di un musulmano e di una cristiana ortodossa e ho vissuto in una terra dove i matrimoni misti erano all’ordine del giorno. Anche i miei genitori, però, come la maggior parte dei bosniaci, erano laici non praticanti e io non sono stato indirizzato verso nessuna confessione. Arrivato in Italia, durante gli anni universitari a Roma, ho conosciuto don Ugo, il sacerdote che mi ha svezzato spiritualmente e catturandomi con la sua semplicità, mi ha avvicinato alla religione cattolica.
Secondo lei la religione divide?
Non la religione, ma i fraintendimenti della religione e la mia terra, la Iugoslavia, perennemente in guerra, lo dimostra. Ogni uomo ha bisogno di credere in qualcuno o in qualcosa, ma l’errore avviene quando si mette al primo posto non l’uomo che professa una religione, ma le regole di quella religione, pensando che sia la migliore. Durante l’invasione nazi-fascista della Iugoslavia, Tito era riuscito a coalizzare i popoli contro il nemico comune, eliminando formalmente le differenze religiose: contava solo essere cittadini iugoslavi. Dopo di lui i politici nazionalisti, come Milosevic, hanno fatto leva sulla pretesa di superiorità della propria religione e in un clima di grande indifferenza, di attaccamento solo formale alla religione, ci si è lasciati manipolare, versando molto sangue.
Quale è il messaggio che lancia il suo libro?
Vuole essere una riflessione sulle conseguenze di una concezione distorta delle proprie convinzioni, non solo religiose e su quel lato oscuro dell’animo umano che porta a compiere il male. E’ un libro forte, ma carico di speranza, perché sono convinto che riusciamo a dare il meglio di noi quando abbiamo toccato il fondo delle nostre miserie e contraddizioni.
E’ più tornato in Bosnia?
Sì, ora è tanto che non vado più e quando mi capita finisce che mi sento uno straniero. La maggior parte dei miei parenti è fuggita in America, Spagna e Australia, i pochi amici che sono rimasti a Mostar sono molto cambiati, fisicamente e psicologicamente e la gente non ha ancora lo spirito per vivere in pace, come un po’ in tutta la Iugoslavia. Basti pensare al Kosovo che vuole l’indipendenza e in questi giorni ha messo in subbuglio l’intera comunità internazionale.
Ormai la sua vita è in Italia, quali sono i suoi sogni?
Da piccolo sognavo di fare il cronista di guerra, proprio perché l’ho vissuta sulla mia pelle, ma ora che ho una famiglia ho cambiato idea. Mi sono laureato in giornalismo e anche se non è una professione facile, ho diverse collaborazioni e faccio il correttore di bozze per una piccola casa editrice, ma il mio desiderio è quello di diventare uno scrittore. Sto già raccogliendo le idee per un nuovo romanzo, completamente diverso da Eloì Eloì, ma mi auguro che abbia la stessa fortuna.