«Attenzione… Attenzione…». La voce del giornale radio delle 23 era sempre la stessa, quella fredda e impersonale dello speaker Arista. Ma quel richiamo, messo lì, subito dopo la sigla, fece rizzare le orecchie a più di un ascoltatore. La giornata, una domenica – il 25 luglio del 1943, per l’esattezza -, era trascorsa a Milano pigra e afosa, tra i consueti commenti sulle vicende di guerra e sulla penuria di cibo. Nonostante la censura, infatti, tutti sapevano che gli Alleati avevano già preso la Sicilia e che il nostro esercito si trovava in gravi difficoltà. Ma ora, inaspettatamente, si annunciava qualcosa di nuovo: una notizia, una di quelle vere.
«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro e segretario di Stato presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato capo del governo, primo ministro e segretario di Stato il Cavaliere, Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio». Una cosa da niente… Chi aveva ascoltato in diretta ammutolì.
Non è uno scherzo
Il primo sentimento fu di incredulità, ma tutti capivano che non poteva trattarsi di uno scherzo. Poteva, un regime durato oltre vent’anni, crollare così all’improvviso? E il duce? Cosa voleva dire che si era “dimesso”? Se ne era andato lui o lo avevano cacciato? E ora, cosa sarebbe successo? Pochi, quella notte tra il 25 e il 26 luglio, riuscirono a prendere sonno…
Anche perché molti, a Milano, come nel resto del Paese, non vollero aspettare la mattina seguente per agire, per fare qualcosa. Così allo sbigottimento seguì l’euforia, la gioia e la rabbia. A mezzanotte piazza Duomo era invasa da migliaia di persone, chi urlava, chi rideva, chi piangeva. Chi ancora non era al corrente veniva subito informato, e del resto la radio ripeteva in continuazione la notizia della “caduta”, ormai non si poteva che chiamarla così, di Mussolini.
«Nessuno pensava ad andare a letto», raccontò un testimone di quelle ore, Giorgio Vitali, fiorentino, all’epoca ufficiale di cavalleria di stanza a Milano. «E, mentre ai balconi cominciavano ad apparire le bandiere, si formavano spontaneamente i primi cortei, che, senza guida e senza capi, si dirigevano verso le sedi più rappresentative del passato regime».
Le sedi fasciste prese di mira
Il “covo” di via Paolo da Cannobbio fu il primo ad essere preso di mira e distrutto dai dimostranti, mentre un grande falò veniva alimentato in strada con le foto e i libri del duce, le divise, i labari e ogni altro emblema fascista. Lo stesso avvenne poi alla sede dei sindacati a Porta Vittoria, al Guf, e in tanti gruppi rionali dei fasci.
I carabinieri e i reparti dell’esercito per lo più si limitavano a osservare senza intervenire, tenendosi a una certa distanza. Né potevano fare diversamente, perché, come i privati cittadini, gli stessi comandi, i prefetti e i questori erano stati colti alla sprovvista, e non disponevano né di adeguate istruzioni, né di forze sufficienti a fronteggiare una simile evenienza.
Tuttavia, in quella nottata, non si registrarono scontri gravi, né vi fu spargimento di sangue. Alcuni tra i fascisti più noti, pur sorpresi dalla notizia, ebbero la prontezza di sparire o si barricarono in casa. Altri, che fino al giorno prima avevano ostentato camicia nera e saluto romano, si erano immediatamente mimetizzati tra i manifestanti, spesso distinguendosi per furore distruttivo e accanimento contro le immagini del regime…
Lunedì 26 luglio
Il sole sorse su una città rivestita del tricolore. Bandiere e coccarde verdi, bianche e rosse sventolavano ovunque, sugli edifici pubblici ma soprattutto ai balconi e alle finestre di case e palazzi, dai finestrini delle auto e dei tram (quei pochi che ancora circolavano…): vessilli di stoffa, per lo più di carta, confezionati alla svelta, nelle famiglie. E poi le scritte, piccole e grandi, ironiche o patriottiche, tracciate sui muri col gesso o con la vernice, inneggianti all’Italia, alla libertà e alla fine del fascismo. «Viva l’Italia martoriata!», aveva scritto qualcuno sull’assito del rifugio antiaereo in piazza Duomo.
Ora, tra i milanesi, c’era soprattutto voglia di saperne di più. I giornali del mattino andarono letteralmente a ruba: si cercavano notizie, particolari, risposte. Il «Corriere della Sera» aveva cambiato la prima pagina per riportare a caratteri di scatola i proclami del re e di Badoglio. E lo stesso avevano fatto gli altri quotidiani, compreso lo stesso «Popolo d’Italia» di Mussolini che aveva preferito adeguarsi ai nuovi tempi.
La famosa frase «la guerra continua», contenuta nella dichiarazione del Maresciallo, nuovo capo di governo, suscitò non poche perplessità e inquietudini tra gli attenti lettori, «ma non riusciva a smorzare l’entusiasmo e l’ottimismo, perché gli italiani, faciloni per natura, erano portati ad attribuire ad essa soltanto un valore interlocutorio», osserva ancora Vitali.
Se nella notte avevano manifestato solo i più “euforici”, al mattino sembrava che l’intera popolazione della città si fosse riversata per le strade e per le piazze. Dappertutto comizi, sfilate, cortei. Chiuse le banche, gli uffici e le fabbriche. Abbassate le saracinesche di officine e negozi. E in sottofondo, vera colonna sonora di quelle ore, si sentivano riecheggiare di continuo l’inno di Mameli e le canzoni del Piave.
Erano tuttavia proprio gli antifascisti più noti, o i deputati delle passate legislazioni, ad attirare l’interesse maggiore della gente. Su improvvisate tribune, nelle piazze principali di Milano, si alternavano esponenti comunisti e democristiani, liberali e azionisti. Le loro parole, tutte inneggianti la fine del fascismo, tutte invocanti democrazia e libere elezioni, differivano non poco in realtà in merito agli scenari futuri e alle prospettive immediate del Paese. Ma i cittadini sembravano applaudire ed esaltare tutti con uguale entusiasmo, come se si stesse festeggiando la fine di un incubo.
Una città in subbuglio
La maggior parte delle manifestazioni, insomma, aveva carattere pacifico. Ma gli animi erano via via sempre più eccitati, tanto che col passare delle ore aumentavano in città gli assalti non solo alle sedi fasciste, ma anche alle abitazioni private di gerarchi e squadristi. L’attività di distruzione dei fasci littori e delle immagini del duce era ormai febbrile, e là dove non si riusciva a svellere o martellare si imbrattava o nascondeva.
Nel dramma accaddero anche episodi che, visti oggi, paiono perfino grotteschi. Come il caso di quell’impiegato che, per paura del capo ufficio, e non certo per convinzione politica, uscì di casa ancora con la mostrina fascista sul bavero (la “cimice”, come veniva spregiativamente chiamata), rischiando una solenne bastonatura… O gli stessi poliziotti, che prima di andare di ronda dovettero in fretta e furia sostituire i fasci sulla divisa con le stellette per non essere continuamente canzonati dalla popolazione…
Altri fatti ebbero invece conseguenze ben più gravi. I morti ammazzati e i feriti in liti e vendette andavano di ora in ora aumentando, mentre in alcuni quartieri della città si organizzava una vera e propria caccia al fascista. Scontri che avvenivano a volte con sparatorie, coinvolgendo così ignari passanti: diversi, in condizioni più o meno gravi, furono ricoverati negli ospedali cittadini.
Nel primo pomeriggio, tuttavia, la tutela dell’ordine pubblico era passata interamente sotto l’autorità militare. «I comandanti del corpo d’armata e della difesa territoriale», ricorda Vitali, l’ufficiale del «Savoia Cavalleria», «decisi a far cessare disordini e violenze, disponevano con un bando il divieto di assembramenti e di riunioni in numero superiore a tre persone, il rispetto del coprifuoco dal tramonto all’alba, la proibizione dell’affissione e distribuzione di manifesti e il ritiro dei permessi di porto d’arma e della autorizzazioni alla circolazione dei veicoli».
Misure severe, estremamente ristrettive, destinate, da lì a poche ore, a diventare ancora più dure. Una circolare, firmata dal generale Roatta, ordinava alle truppe di aprire il fuoco, anche con mortai e artiglieria, contro chiunque potesse turbare l’ordine, senza preavviso e in formazione di combattimento; i «caporioni» e gli «istigatori di disordini», presi sul fatto, sarebbero stati fucilati sul posto. E i soldati che non avessero rispettato alla lettera queste disposizioni o che si fossero dimostrati solidali coi rivoltosi sarebbe stati immediatamente passati per le armi. Il re e i militari avevano esautorato Mussolini, ma non avrebbero tollerato alcun accenno di rivolta nel Paese.
Si era, insomma, allo stato d’assedio. Mussolini era caduto, ma la guerra continuava, l’aveva detto Badoglio. E i tedeschi erano ancora ai loro posti, pronti a intervenire. La felicità per la fine della dittatura e la speranza che le cose potessero finalmente cambiare in meglio stavano già svanendo, sostituite dall’angoscia dell’incertezza, a Milano come nel resto del Paese. E si era “soltanto” a lunedì 26 luglio…