Pochi mesi dopo la Liberazione, il cardinale Ildefonso Schuster diede alle stampe un volume dal titolo Gli ultimi tempi di un regime, vero libro bianco il cui il primate dell’alta Italia, al di sopra di ogni possibile polemica, intendeva far chiarezza sul ruolo svolto dalla Chiesa ambrosiana tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945, soffermandosi in particolar modo sulla vera portata del suo estremo tentativo di mediazione fra Mussolini e gli esponenti della Resistenza.
Ancor oggi, scorrendo le pagine di quel testo scritto dall’allora arcivescovo di Milano, è facile cogliere alcune connotazioni tipiche della personalità schusteriana: la religiosa pietà, l’umanissima paternità, la delicata discrezione, insieme ad un coraggioso realismo. Colui che in quel drammatico frangente sedeva sulla cattedra di Ambrogio, infatti, si fece carico della civitas nella sua interezza, quale autentico, supremo punto di riferimento, al di sopra delle parti.
Settant’anni fa, alle ore 15 del 25 aprile 1945, il duce era giunto in Arcivescovado accompagnato dal maresciallo d’Italia Graziani, dal ministro dell’interno Zerbino, dal sottosegretario Barracu, dal prefetto Bassi e dall’industriale Cella, dal quale peraltro era partita l’iniziativa per quest’ultima, disperata trattativa.
Salito lo scalone, Mussolini venne accompagnato nella sala delle udienze, interamente tappezzata di damasco rosso, dove per tre lunghe ore si trovò faccia a faccia con il cardinal Schuster.
Fu una colloquio assai faticoso. Da una parte l’arcivescovo che tentava di persuadere il capo della Repubblica di Salò ad arrendersi, dall’altra Mussolini che appariva fisicamente e moralmente distrutto. «Aveva il volto talmente stravolto che faceva l’impressione di un uomo quasi inebetito dall’immane sventura», scriverà Schuster nelle sue memorie, descrivendo dettagliatamente l’incontro.
Il presule aveva perfino fatto preparare una stanza nel palazzo arcivescovile per ospitarvi il duce stesso, nella previsione che questi si sarebbe arreso non appena concluse le trattative con il Comitato di liberazione nazionale, rimanendo lì al sicuro come prigioniero di guerra, con tutte le garanzie internazionali.
Intanto Milano era preda di una grande confusione. Si sapeva soltanto che gli Alleati stavano arrivando e che il Clnai aveva diramato l’ordine di insorgere, motivo per cui in alcuni quartieri si combatteva anche per le strade e fra le case.
Proprio questo era l’angoscioso timore del cardinal Schuster, e cioè che tedeschi e repubblichini decidessero di resistere ad oltranza, trasformando la città in una sorta di Stalingrado, così che la popolazione, che già aveva sofferto pene indicibili, sarebbe stata vittima di nuove tragedie…
I membri designati dal Comitato di liberazione arrivarono in Curia a pomeriggio inoltrato, sia perché si era discusso a lungo sull’opportunità di partecipare a questo incontro, sia perché non era stato agevole rintracciare il generale Cadorna, reduce da una missione in Svizzera.
Il responsabile del Corpo volontari della libertà era accompagnato da Achille Marazza, segretario della Democrazia Cristiana nel periodo della Resistenza, dall’azionista Lombardi e dal liberale Arpesani: tutti avevano ricevuto come unico mandato quello di accettare la resa senza condizioni dei fascisti.
Mussolini, pur preso in contropiede da questa richiesta non trattabile, anche per insistenza dell’arcivescovo si dischiarava disposto a discutere e sembrava quasi sul punto di accettare di deporre le armi. Ma all’improvviso in quel delicato negoziato si intrometteva con arroganza Graziani, affermando che principi di onore e lealtà impedivano al governo della Repubblica sociale di trattare all’insaputa dei tedeschi. Al che l’avvocato Marazza intervenne prontamente, precisando che in realtà le autorità germaniche in Italia stavano negoziando la resa da oltre dieci giorni…
A questa notizia del tutto inattesa, il duce rimase come fulminato: «Ci hanno sempre trattato come servi e alla fine ci hanno traditi!», urlò fuori di sé. L’ormai ex dittatore chiedeva quindi di interrompere la seduta per andare a dire ai tedeschi il fatto loro. Promise che sarebbe stato di ritorno entro un’ora, ma l’attesa, com’è noto, fu vana. Indignato e confuso – «Sapete cosa mi ha detto il cardinale? Di pentirmi dei miei peccati!», sbottò abbandonando la Curia -, Mussolini fuggì verso Como, in un disperato quanto inutile tentativo di sottrarsi al proprio destino.
Da alcuni è stato scritto che quell’incontro in Arcivescovado «fu il tentativo di togliere il merito – della fine del conflitto – alla Resistenza per avocarlo alla Chiesa». Ma si tratta di una posizione insostenibile, come ben ci spiegava l’indimenticato storico Giorgio Rumi, che sottolineava come, semmai, «bisognerebbe mettere in evidenza la gestione umana, anzi umanistica di quella transizione: nel passaggio di poteri che sarebbe seguito alla catastrofe fascista, infatti, il cardinal Schuster cercava di portare un certo rispetto del diritto sostanziale, in modo da evitare massacri, vendette private e processi sommari».