«Gesiolo»: ovvero chiesetta, oratorio campestre, nel dialetto milanese. Il grande santuario di Rho è «nato» da qui: da un piccolo, modesto edificio sacro, dove si è manifestata quella misericordia divina che ha fatto scaturire una devozione fortissima, ancora oggi condivisa e partecipata. Una cappellina eretta in piena campagna, sulla via del Sempione, nel 1522, esattamente cinque secoli fa: motivo per cui, per tutto quest’anno giubilare, chi visita la basilica dell’Addolorata può lucrare l’indulgenza plenaria, concessa da papa Francesco per il significativo anniversario (info su www.oblatirho.it).
Il miracolo, con la lacrimazione dell’immagine di Maria, avvenne nell’ultimo scorcio dell’episcopato di san Carlo. Ma già in quel 1522 era successo qualcosa di prodigioso: un gentiluomo di Gallarate, infatti, proprio transitando in questo tratto di strada aveva ricevuto una «rivelazione» che l’aveva salvato da un agguato mortale e, riconoscente della grazia ricevuta, aveva voluto costruire una cappelletta, ornata di un semplice dipinto con la «Pietà».
Davanti a questo «gesiolo» sostavano per una preghiera i viandanti e i contadini della zona, come anche gli abitanti della vicina Rho, che venivano qui per confidare alla Vergine problemi e speranze. Un giorno, e si era al 24 di aprile del 1583, due uomini si accorsero che il volto dell’Addolorata era rigato di lacrime: non quelle dipinte dall’anonimo artista, ma lacrime vere, liquide, di sangue. Chiamarono il parroco, che giunse con il suo coadiutore e altra gente, tutti propensi a credere che si trattasse di un caso di allucinazione, o semplicemente di un qualche fenomeno fisico, dovuto all’umidità o a un altro accidente. Ma una spiegazione «razionale» non fu trovata, mentre le guarigioni miracolose si susseguivano numerose.
La cosa, prudentemente e giustamente, fu affidata all’arcivescovo. Che era, appunto, il Borromeo. Il quale, in quegli anni che aveva trascorso quale pastore della diocesi ambrosiana, si era ritrovato più volte a vagliare la veridicità di fatti prodigiosi avvenuti in passato. Ma questo miracolo era appena accaduto e san Carlo aveva dunque la possibilità di verificare e giudicare di persona, con rigore e in modo obiettivo. Per questo inviò a Rho una commissione d’inchiesta, formata da teologi, medici e notai (fra questi, ad esempio, c’era il suo segretario, e futuro biografo, Carlo Bascapè), che fece indagini scrupolose e che raccolse le deposizioni di oltre sessanta persone, fra testimoni e «miracolati». Testimonianze giunte fino a noi e conservate negli archivi diocesani: ricchissime di informazioni storiche, ma anche dal punto vista sociale e perfino linguistico, sono state studiate e pubblicate nel 1983, nel quarto centenario del miracolo (fra gli altri da Piero Airaghi, decano degli studiosi rhodensi).
All’arcivescovo fu quindi consegnato un corposo dossier, che egli sottopose quindi ad una seconda commissione «mista», composta cioè da gesuiti, barnabiti, francescani, domenicani: fra questi c’era anche un docente di Oxford, Lewis Owen (monsignor Ludovico Audoeno), giurista, che Borromeo aveva chiamato come vicario diocesano. Il verdetto di questo processo canonico riconobbe che attorno al «gesiolo» di Rho era effettivamente successo qualcosa di prodigioso, e che la devozione popolare che ne era scaturita andava guidata e sostenuta. «Qui c’è il dito di Dio», ebbe a dire lo stesso san Carlo. Che senza indugio chiamò il suo architetto di fiducia, Pellegrino Tibaldi, per fargli progettare il nuovo santuario mariano, che avrebbe dovuto esser uno dei più grandi e maestosi in terra ambrosiana.
Il Borromeo stesso volle venire a Rho per porre la prima pietra del sacro cantiere. Era il 6 marzo 1584 e l’arcivescovo, che non si risparmiava fatiche e disagi, intuiva forse che la sua fine era vicina: morirà, infatti, da lì a sei mesi. E forse anche per questo il suo discorso ai rhodensi fu così accorato e commosso, come un autentico testamento spirituale, mentre invitava i fedeli a essere riconoscenti, più che a «gloriarsi», perché proprio la loro terra era stata scelta dalla Madonna «per mostrare le sue meraviglie».
L’antico «gesiolo» venne inglobato nel nuovo santuario, arricchito dai migliori artisti, mentre l’immagine miracolosa fu traslata sull’altare maggiore. Il tutto sotto la vigile cura di quei padri oblati missionari che proprio san Carlo volle chiamare all’Addolorata, e che ancora oggi sono qui presenti e operanti, studiando e pregando, accogliendo e predicando, da Rho all’intera Diocesi.