Lo stemma araldico, con le sue regole e i suoi simboli, è un modo per comunicare attraverso le immagini alcuni messaggi precisi: questo vale soprattutto per gli stemmi ecclesiastici, e in modo particolare per quelli scelti dai vescovi, spesso ricchi di simbologie che necessitano di essere interpretate secondo quella speciale scienza storica che si chiama per l’appunto araldica.
Nel caso dello stemma del nuovo Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, al centro dello scudo, dal fondo oro (il più nobile dei metalli, che simboleggia la virtù teologale della fede), spicca un pino. L’allusione è al cognome del vescovo, e per questo, tecnicamente, si parla di “stemma parlante”, cioè capace di “parlare”, di dire, di tradurre attraverso le immagini quelle assonanze che richiamano un nome ben preciso (in questo caso “Delpini”). Del resto non si tratta di uno stemma coniato ex novo, ma dello stemma di famiglia che monsignor Delpini ha giustamente conservato come segno di una tradizione nella quale si sente personalmente inserito.
E tuttavia la scienza araldica di stampo ottocentesco si era cimentata a “decriptare” i vari simboli che entrano solitamente a comporre gli emblemi, e il pino è uno di questi. Esso simboleggia le virtù spirituali della benignità, della clemenza e della perseveranza; ma anche dell’accoglienza e dell’offerta di riparo (il riparo dell’ombra): tutte qualità che nel sentire comune di sempre, ma soprattutto nei nostri tempi, la Chiesa è chiamata a innanzitutto a vivere, e poi a testimoniare e a portare nel nostro mondo attuale.
Ci sono poi altre due immagini che vanno interpretate. Innanzitutto le tre colombe: e da sempre la colomba, già nella Bibbia fin dal celebre episodio di Noè, è simbolo di pace. Ma questa lettura/interpretazione è forse fin troppo scontata. In effetti – e qui sta il particolare da mettere in evidenza – le colombe sono tre e sono posate sul pino, come se fossero pronte per spiccare il volo: ma per spiccare il volo devono prima fare pratica, devono essere educate, occorre che qualcuno insegni loro la tecnica giusta per volare. Nella biografia del nuovo Arcivescovo hanno un certo rilievo due esperienze pregresse: quella di insegnante e quella di Rettore dei Seminari. Esperienze dunque pedagogiche: ma la vera pedagogia non è solo questione di trasmissione teorica di nozioni e di concetti; non è solo questione di norme da imparare o di una disciplina da acquisire; certo anche questo. Ma è soprattutto accompagnamento nell’affrontare la vita e i suoi problemi, nell’imparare appunto a “spiccare il volo”: a fare i primi tentativi per poter poi volare in maniera autonoma. E questa dimensione educativa continua senz’altro anche nel ministero del nuovo Arcivescovo: non per nulla si parla a questo proposito di “magistero” episcopale, e quindi di insegnamento. Le tre colombe vorrebbero allora indicare il popolo ambrosiano che chiede al suo Arcivescovo che con il suo magistero gli insegni a volare, a volare sempre alto verso gli ideali del Vangelo.
Poi compare una mano destra che dal bordo sinistro dello scudo si sporge verso il centro ad afferrare il pino: se volessimo usare il termine tecnico dell’araldica per definire tale figura, dovremmo parlare di un “destrocherio”. È un’immagine (quella della mano che afferra il pino e lo tiene saldo) che comunica subito un senso di fermezza e di stabilità. Di per sé sono qualità che già il pino con le sue radici trasmette spontaneamente; in questo caso però l’idea risulta ulteriormente rafforzata. Ma, potremmo chiederci: di chi sono questo braccio e questa mano? Al di là dell’origine storica di questo stemma familiare, proprio per il fatto che ora è lo stemma di un vescovo, viene spontaneo applicare a questa immagine alcune “risonanze bibliche”: si tratta del “braccio forte” di Dio, quel braccio che ha compiuto meraviglie nella storia della salvezza; e soprattutto si tratta della mano di Dio, che è insieme energica e paterna, capace di afferrare e di proteggere, fonte e garanzia di ogni autentica stabilità. In questa interpretazione, se già la figura del pino rimanda alla stabilità per le sue radici che affondano nella tradizione, questa stessa stabilità trova motivo di ulteriore forza e di più sicuro radicamento proprio nella “mano di Dio” che tutto sostiene e dirige. Miglior augurio e auspicio per il ministero futuro del nuovo Arcivescovo di Milano non potrebbe essere “disegnato”.
Il cardinale Angelo Scola, quando venne eletto alla cattedra di Milano, per primo volle introdurre nel suo stemma il cosiddetto “capo di Milano”. Per “capo”, in araldica, si intende la parte superiore dello scudo, dove di solito si mettono alcune immagini che rimandano ad altre realtà con le quali si vuole istituire uno stretto legame: per esempio il simbolo di una istituzione o di una città. E il “capo di Milano” (la croce rossa su fondo argento, derivata dallo stemma della città) esprime precisamente la volontà di un riferimento esplicito, di un legame oggettivo, con la tradizione civile, culturale e religiosa della città di Milano e dell’intero territorio che su di essa gravita, come per l’appunto lo è la Diocesi Ambrosiana. E l’arcivescovo Delpini, aggiungendo al proprio stemma di famiglia, già così ricco di simboli, il “capo di Milano”, in continuità con quanto aveva già fatto il suo predecessore, ha offerto un’indicazione molto significativa dal punto di vista del rapporto che un vescovo deve avere con la civitas in cui è chiamato a esercitare il suo ministero di pastore e di maestro.
Infine c’è il motto: Plena est terra gloria eius. Sono le parole tratte dalla visione che il profeta Isaia ha nel tempio di Gerusalemme, quando Dio gli si rivela nel suo splendore ed egli ascolta il canto della liturgia celeste dove per l’appunto si proclama che tutta la terra è piena della Gloria di Dio (cfr Isaia 6,3). E sono le stesse parole che la liturgia cristiana ha ripreso e introdotto nella Messa, nel momento centrale della celebrazione, prima dell’inizio della preghiera eucaristica, con il canto del Sanctus. Con queste parole sia la Bibbia, sia la liturgia, proclamano che l’intero universo è pieno della Gloria di Dio, cioè della sua presenza luminosa e salvifica: Dio infatti si rende presente nella storia dell’umanità e nella storia dell’intero universo che egli, con la sua “mano” forte e paterna, regge con sapienza e provvidenza. Il motto del nuovo Arcivescovo di Milano è dunque insieme una professione di fede e una espressione di lode e di preghiera. Ed è bello pensare che tutti i fedeli ambrosiani, ogni volta in cui parteciperanno alla celebrazione eucaristica, proclamando o cantando le parole del Sanctus, ripeteranno le parole del motto del loro Arcivescovo, in comunione con lui nella stessa professione di fede e nella stessa espressione di lode e di preghiera.