Eravamo solo sette, i sette prefetti di Liceo, quando incontrai per la prima volta don Dionigi come insegnante. Ci educò all’aspetto pastorale del sacramento della Riconciliazione e ci introdusse alla riflessione sul matrimonio cristiano. Eravamo pochi quell’anno, tutti disposti sulla prima fila di banchi ed egli si accostava a noi con parlare fluente e occhio penetrante. Parlare fluente: al termine d’ogni ora di lezione si percepiva che essa era «volata» prima di tutto per lui e che molte altre cose avrebbe voluto dire, se il tempo non fosse stato tiranno… per nostra fortuna. Occhio penetrante: la vita dei prefetti era intensa, come quella dei giovani seminaristi che dovevano accompagnare e animare e c’era sempre qualche ora di sonno in arretrato da recuperare. Così don Dionigi talvolta lasciava dormire il prefetto che era crollato con la testa sulle braccia incrociate, talaltra arricchiva il suo insegnamento d’esempi di vita – non li chiamerei «casi» – che catturavano l’attenzione, anche perché amava coinvolgerci, domandando il nostro parere.
C’era un filo costante in quelle lezioni: essere fedeli alle indicazioni del magistero e attenti alle persone; ricordare che la Riconciliazione deve essere tale, deve far capire la bontà di Dio ad ogni persona. Al centro della riflessione c’era l’uomo: su questa nozione – ci ricordava don Dionigi – si incontravano credenti e non credenti. Un uomo che è «mistero» nel senso più profondo e bello della parola: mistero perché creato «ad immagine di Dio in Cristo Gesù» – «mistero luminoso e mirabile», ricordo che aggiungeva don Dionigi – e che proprio per questo può dare valore al suo esistere. «Il senso ultimo, radicale dell’essere e dell’esistere dell’uomo – scandiva don Dionigi – è la conformità all’immagine del Figlio di Dio e l’imperativo morale universale e individuale è quello di seguire Cristo, rivivendone l’amore per il Padre e per i fratelli».
Sono parole che ho ritrovato spesso – coniugate a mio modo – nei miei schemi d’omelia o di ritiri spirituali. A don Dionigi – ed ai docenti che con lui mi formarono al ministero – debbo proprio quella conferma nel primato dell’attenzione pastorale alla persona; primato che sa coniugare la fedeltà alla dottrina, al magistero, alla tradizione con la consolazione della persona. Talvolta, infatti, la verità può essere imprigionata dal rigore della parola e dalla freddezza dell’esposizione, che in alcuni casi sembra avvolgere quella del cuore. Il pastore secondo il cuore di Dio, invece – a mio parere –, deve sapere proporre la verità con mitezza di cuore, con umiltà, con attenzione al cammino della persona, del fratello o della sorella, che ha di fronte.
Lo stesso stile ritrovai nel corso successivo, quello sul matrimonio, quando le attese pastorali della prossima ordinazione sacerdotale tendevano a prevalere e da diacono cominciavo ad accostare situazioni diverse (consolanti e complesse) nella parrocchia di apostolato. Anche in questo caso – rivedo le dispense ciclostilate di allora – le citazioni del magistero erano abbondanti e lo schema comunemente si scandiva su tre livelli: la dottrina comune e certa, la riflessione teologica in atto, alcuni problemi particolari. Mi sono rimaste impresse alcune sue belle espressioni. Ne cito due: «Il matrimonio è prima di tutto patto d’amore e non contratto o istituzione»; «La famiglia cristiana non è solo il termine od oggetto dell’attività pastorale ecclesiale, ma ne è anche il principio o soggetto responsabile».
Sono frasi che mi hanno accompagnato ed aiutato nei primi anni di ministero, quando incontrai i gruppi familiari dell’Equipe Notre Dame. Mi ci accostai con cordialità immediata proprio anche per l’apprezzamento che ne avevo avuto dal professore cordiale, sempre sereno e sorridente, che… agli esami non incuteva soggezione; ti faceva capire che ti ascoltava con interesse sincero, e ti guardava con occhio buono, senza che questo garantisse in partenza un voto eccellente. La carità (del volto) sapeva coniugarsi con la verità (del voto).
Anche per questo stile mi trovavo a mio agio con don Dionigi. Certamente, per fare questo, occorre una vigilanza costante su di sé, sui moti del proprio cuore, sulle reazioni del nostro corpo, affinché la benevolenza stessa di Dio traspaia in pienezza. Forse costa un poco di fatica, ma, come diceva S. Carlo ad un cappuccino pochi giorni prima della sua morte: «Per illuminare gli altri una candela deve consumarsi». Il mistero del sacerdote sta nel suo consumarsi per Dio con amorosa pazienza verso i fratelli.