Non è affatto immediato capire perché il 26 giugno padre Clemente Vismara sarà solennemente proclamato beato. Di primo acchito, ti trovi davanti a un missionario dalla barba bianca, la classica icona del tempo che fu. Un missionario come tanti della sua epoca, impegnato nell’edificazione, anche materiale, della Chiesa. Per Vismara (che in una lettera si vanta di aver cotto la bellezza di 750mila mattoni) ciò ha voluto dire la realizzazione di una serie di opere in due missioni del Nord-Ovest della Birmania, oggi Myanmar.
Da pioniere in Birmania
Certo, padre Vismara ha operato con estrema povertà di mezzi e in condizioni difficili, ma a dire il vero non meno problematiche di quelle di molti suoi confratelli. Leggendo le sue numerose lettere e gli articoli scritti per Mondo e Missione e Italia Missionaria, colpisce il continuo (quasi asfissiante) riferimento alla necessità di soldi per pagare le innumerevoli costruzioni – gli orfanotrofi, le scuole, le cappelle, le residenze delle suore… – che via via, con intraprendenza tutta brianzola, il futuro beato è andato allestendo. Per chi, come noi oggi, non vede più come priorità della testimonianza missionaria il “fare” ma l’“essere”, tale continua insistenza potrebbe risultare fastidiosa.
Ma non è tutto. A collocare Vismara irrimediabilmente nella sua epoca storica (col rischio di considerarlo, ingiustamente, anacronistico), contribuisce un altro fattore decisivo: l’adozione di un metodo missionario volto alla “conquista delle anime”, meglio ancora se sottratte ai protestanti, nel caso specifico i battisti americani presenti nell’area di azione di Vismara dal 1904 e con i quali, senza farne mistero nei suoi scritti, il missionario italiano ingaggia un duello spirituale a distanza. Verbi come “prendere” o sostantivi quali “retata” utilizzati per definire l’attività missionaria oggi urtano giustamente la nostra sensibilità, dacché ci è più chiaro, alla luce del Concilio, che la missione non consiste in una “caccia grossa”o nella spartizione di prede.
Un ultimo aspetto. Vismara appartiene alla categoria dei “pionieri”, abituati a muoversi- giocoforza – in solitudine, a vivere e comportarsi da protagonisti, fors’anche da primattori. Lui stesso confida che normalmente si confessa 3-4 volte l’anno a motivo delle distanze geografiche e ammette che la solitudine (con i confratelli si vedevano una volta l’anno a Kentung) . Oggi si preferisce una visione più collegiale dell’esperienza missionaria, dal momento che la fraternità, come tale, rappresenta, di suo, un fattore di testimonianza cristiana. Anche da questo punto di vista, dunque, padre Clemente apparentemente risulta essere fatalmente “superato”.
Quell’incrollabile fede nella Provvidenza
Eppure. Al netto dell’ineliminabile dazio che, come ogni santo, anche Vismara paga alla spiritualità del suo tempo, alla cultura di provenienza e al contesto in cui vive, rimane il fatto che la lettura degli scritti di padre Clemente regala sorprese davvero notevoli e restituisce un personaggio di grande spessore umano e spirituale, incredibilmente attuale e vivo. Debbo confessarlo: io che non ho conosciuto padre Clemente da vivo, ma l’ho incontrato solo attraverso i ricordi di padre Piero Gheddo e di altri suoi confratelli e soprattutto attraverso le pagine dei suoi scritti, ne sono rimasto affascinato.
Parafrasando lo slogan scelto dai vescovi italiani per il decennio 2010-2020, è possibile affermare che padre Vismara ha testimoniato e ha educato alla vita buona del Vangelo. Lo ha fatto, in primis, mostrando la bellezza dell’essere cristiani, vivendo in condizioni ai limiti dell’umano, con una a dir poco invidiabile serenità di cuore, con una incrollabile fede nella Provvidenza che ricorda da vicino quella di don Giovanni Bosco.
In un ambiente naturale di incredibile bellezza ma pressoché inaccessibile (in mezzo alla foresta, assenza di strade, comunicazioni inesistenti…), tra popolazioni pressoché “primitive” (absit iniuria), da solo – fatto salvo l’aiuto preziosissimo di un manipolo di suore – padre Vismara riesce a vivere una vita tutt’altro che comoda con una gioia contagiosa, col sorriso sulle labbra, tanto da essere passato alla storia come il prete che sorrideva.
Eppure, in molti casi, la quotidianità era tutt’altro che facile da affrontare. Tanto per dire: per viaggiare da una missione all’altra padre Clemente si muove a cavallo per giorni; si improvvisa dentista per cavare, a sé e ad altri, i denti guasti (naturalmente senza anestesia alcuna); deve affrontare ripetutamente bande di ladri che lo ripuliscono dei soldi della missione; quando si ammala, finisce per quasi due mesi in un ospedale dove girano i topi… Padre Clemente descrive tutte queste avventure senza enfasi, con arguzia, quasi prendendone le distanze e collocandole tutte dentro l’unica grande Avventura della missione.
«La vita è fatta per andare lontano»
Ma a conquistarti è soprattutto l’affetto che Vismara prova per la sua gente, bambini e ragazzi in prima fila. La paternità è un tratto distintivo del beato padre Clemente. Paternità, mai paternalismo: sì, perché Vismara che accoglie a braccia aperte, sfama, istruisce, in una parola educa – talvolta con l’ausilio di qualche “scappellotto” politicamente scorretto – centinaia di ragazzi, è lo stesso che sa bene che essi hanno da giocare la loro libertà. Vismara accetta il rischio educativo, e talvolta esce sconfitto. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, i “suoi” ragazzi assorbono da lui un’educazione umana e una fede cristiana autentiche. Il tutto avviene con un’osmosi che ha del misterioso se si pensa all’assoluta esiguità di mezzi e alla formazione da autodidatta del missionario-educatore (alla faccia dell’ipertrofia formativa di oggi o alla dovizia di strumenti tecnici impiegati). Al pari di don Bosco, Vismara sa – e lo dichiara – che al fondo di ogni ragazzo c’è un che di positivo che attende solo di essere liberato per sprigionare energia. Lui s’industria in quello, convinto che così metterà le basi del futuro popolo birmano e pure della Chiesa locale. La sua vista lunga viene premiata: diversi dei suoi ragazzi e ragazze si faranno preti e suore, in alcuni casi assumendo il suo nome.
C’è infine, un tratto peculiare, che connota Vismara e lo rende unico: la sua «identità brianzola». Trattasi di un misto di pragmatismo che rifugge i discorsi vacui e di una concretezza che si traduce in opere e segni visibili, per realizzare i quali Vismara diventa talora sfacciato nel chiedere contributi economici ai più svariati interlocutori. A tutto ciò si somma una sorta di ritrosia a mostrare in pubblico i sentimenti profondi, un pudore tutto particolare. Che tuttavia non impedisce a padre Clemente di aprire squarci bellissimi sulla sua esistenza con alcune frasi, disseminate qua e là nei suoi scritti, che paiono altrettante pepite sepolte nel terreno. In qualche caso siamo davanti a espressioni che farebbero la felicità di un copywriter tanto sintetiche ed efficaci suonano. Come questa: «La vita è fatta per esplodere, per andare lontano».