1. Ma io chi sono?
Ma io chi sono? ma che cosa mi sta succedendo? Sono adatto alla vita? Merito di essere amato? Sono capace di amare? Come posso sapere che cosa devo fare? Come possono diventare storia e realtà le intuizioni che ho avuto, i sogni che ho sognato, i progetti che ho pensato? Che nome dare alla gioia che provo? Che nome dare allo spavento che mi turba?
Queste, forse, erano le domande che Maria, la giovane donna di Nazaret si poneva mentre andava in fretta verso la casa di Zaccaria sui monti di Giudea.
Ogni uomo, ogni donna attraversa, forse più di una volta, forse per tutta la vita, queste domande o domande simili.
In modo particolare le ragazze e i ragazzi che intuiscono una chiamata alla consacrazione vivono gli anni del discernimento in cerca di risposte per queste domande: è questa la mia strada? Perché provo gioia, anche in momenti di fatica e di obbedienza? Perché provo desolazione, anche nei momenti di riposo e in quelli lasciati vuoti da impegni e obbedienze?
L’annunciazione che ha spaventato Maria e anche l’intuizione che turba una adolescenza non bastano per rispondere alle domande inquietanti: indicano forse la meta, ma non descrivono la via.
2. Il nome che ricevo.
Il vangelo rivela che la risposta alle domande inquietanti non viene da un ripiegamento su di sé per analizzarsi, da una intelligenza che capisce tutto, da una presunzione di poter fare qualsiasi cosa, non viene dal titolo scritto sul biglietto da visita o dalla targa scritta fuori dall’ufficio.
Imparo il mio nome perché un altro mi chiama, perché gli altri mi chiamano.
Piuttosto Maria impara il suo nome dall’appellativo con cui l’angelo Gabriele la saluta, dal saluto e dalla gioia che illumina la casa di Elisabetta e dalle sue parole.
L’angelo la chiama “piena di grazia”; Elisabetta la saluta “madre del mio Signore e colei che ha creduto”.
Il nome viene sempre da un altro, un uomo o una donna che diventano eco della voce di Dio.
Imparo chi sono e metto alla prova quanto valgo perché Dio pronuncia il mio nome, il nome nuovo che solo lui conosce. E alcuni altri, eco della voce di Dio, mi aiutano e comprendere il mio nome, a decifrare il mio mistero.
3. Mons Stucchi, una voce di Dio per molti.
Questo è stato un tratto tipico e benedetto di mons Stucchi, fin dagli anni della sua giovinezza, quando era don Luigi. È stato capace di dire a molti il loro nome, cioè di aiutarli a riconoscere in che modo avrebbero potuto realizzare la loro vocazione nelle scelte definitive della vita.
Ha avuto la pazienza di ascoltare, di dire e di tacere, di orientare e di insistere, di seguire con determinazione e lucidità: e così giovani donne si sono avviate verso la vita monastica o la vita consacrata nel servizio delle comunità o la vita matrimoniale, e così giovani uomini si sono avviati verso il seminario e il ministero ordinato.
4. Ascoltare il proprio nome. Pronunciare il nome di altri. In nome di Dio.
Questo tratto, solo uno dei tratti che hanno caratterizzato il ministero e la spiritualità di don Luigi, è una provocazione a pensare, a pregare, ad agire per tutti noi.
Nei nostri giorni si corrono rischi opposti: quello di non dire niente, di essere semplicemente persone che ascoltano e che non si arrischiano a orientare e quello opposto di dire tutto, di pretendere di essere interpreti della voce di Dio e quindi, in un certo senso, imporre cammini e stili di vita.
Siamo chiamati a riconoscere il bene ricevuto da coloro che ci hanno chiamati per nome in nome di Dio e ci hanno aiutato
Siamo invece chiamati a costruire rapporti con gli altri caratterizzati da grande discrezione, ma non da reticenza, da grande umiltà e intensa preghiera, non certo a essere sbrigativi e generici, da parole sapienti e pazienti che si lasciano ispirare dallo Spirito Santo, come Elisabetta, non certo dalla pretesa di capire e di essere esperti delle cose di Dio.