- C’era, in Egitto, un popolo di schiavi, un popolo senza speranza.
Il popolo ridotto in schiavitù sente il peso dello sfruttamento e grida al Signore e la sua miseria commuove il Dio dei padri. Il popolo ridotto in schiavitù si lamenta e trova insopportabili i sovrintendenti spietati. Si lamenta e grida. Ma è un popolo senza sogni, è un popolo che ritiene la rassegnazione più sensata della speranza. Si lamenta e grida, ma non si aspetta un liberatore.
Si lamenta e vive in miseria, ma non si immagina una terra promessa. Non sa nulla dell’impresa audace che s’arrischia nel deserto. Neppure lo sfiora il pensiero che Faraone possa cambiare politica e dare libertà agli schiavi e lasciar partire per un altrove quelli che sono così necessari per i suoi progetti spropositati.
Vive in Egitto un popolo scontento, un popolo miserabile, il popolo del lamento senza speranza, un popolo senza sogni.
Il popolo che grida e si rassegna viveva in Egitto, e vive dappertutto.
Forse vive anche oggi, forse vive anche nella Chiesa. Un popolo che si ingegna nell’arte di sopravvivere, di adeguarsi: sempre complessato di essere straniero e sempre ansioso di rendersi accettabile, di adeguarsi alle pretese del padrone, di adorare i suoi dei. Un popolo senza sogni, considera le promesse una illusione, considera la speranza una ingenuità. Un popolo scontento, ma che si accontenta; si lamenta e tira avanti.
- Io ti mando: fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo. La vocazione all’impopolarità.
Perciò Mosè è spaventato nell’incontro che sconvolge la sua vita sull’Oreb, il monte di Dio.
Dio lo manda a un popolo che non l’aspetta. Dio lo manda per una missione che lo rende impopolare, lo sovraccarica di tutte le pretese e il malcontento di un popolo che in fondo in Egitto stava bene, secondo la sua memoria malata e secondo i suoi criteri di benessere.
Ecco: ci sono quelli chiamati a farsi carico di popoli senza sogni. Nella loro missione coloro che si fanno carico del popolo senza sogni conoscono momenti di popolarità, sono circondati da gente euforica, entusiasta. Capita però, e forse anche più spesso, che si rendano impopolari perché disturbano la rassegnazione; capita che siano ritenuti responsabili del disagio del popolo, messo in cattiva luce agli occhi del padrone, con la pretesa dell’inviato di Dio di adorare il Dio dei padri invece che gli dei del padrone.
- Come potrà sostenere la sua missione chi deve portare il peso del popolo senza sogni?
3.1 Vivere in comunione con “Io sono”
La vocazione di Mosè diventa convincente e la sua missione possibile perché sul monte di Dio, l’Oreb, ascolta la voce del Dio dei padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. Mosè diventa l’amico di Dio, quell’uomo che parla con Dio faccia a faccia. La compassione per la sorte miserabile del popolo non è una motivazione sufficiente per l’impresa di Mosè; l’immaginazione di una terra migliore e di una condizione più desiderabile non è una promessa capace di far sognare chi è senza sogni. Solo l’incontro con “Io-sono” rende possibile intraprendere la missione e farsi carico del popolo senza sogni per annunciare la promessa di Dio e aprire gli arrischiati percorsi della speranza.
Come Mosè gli inviati di Dio al popolo senza sogni, possono trovare solo nell’incontro con il Dio dei padri la luce, la forza, l’iniziativa per seminare speranza e incoraggiare la fiducia nella promessa di Dio e il cammino verso il Regno.
3.2 Nell’amicizia con Gesù la pienezza della gioia
Il ministero del vescovo e della Chiesa intera assume la concretezza storica di accogliere l’amicizia di Gesù e la sua gioia. Le confidenze di Gesù alla vigilia della sua passione, secondo la testimonianza di Giovanni, sono la rivelazione della intenzione di Gesù: Gesù vuole che la gioia dei suoi discepoli sia piena e che questa gioia si alimenti dell’amicizia con lui, l’amicizia più grande, quella di chi è disposto a dare la vita per i suoi amici. Le parole di Gesù fanno intuire e desiderare la promessa di Dio che può svegliare dalla rassegnazione il popolo che ha smesso di sognare e che non ardisce sperare. A questo siamo chiamati: alla pienezza della gioia! Questa è l’opera di Dio: il dono della vita fino alla fine. Questa è la terra promessa: la vita eterna, conoscere il Padre e colui che il Padre ha mandato.
La Chiesa vive per indicare la via verso la pienezza della gioia, la gioia di Gesù e della comunione trinitaria. Portare la pienezza della gioia a un popolo senza sogni che si accontenta di molto meno può essere una prova insostenibile se la pienezza della gioia non si alimenta dell’amicizia con Gesù.
3.3 “vi ho trasmesso quello che ho ricevuto”.
Il ministero dell’inviato di Dio è servizio a consegnare il dono ricevuto. L’apostolo non ha un suo messaggio, ma solo il vangelo di Dio; l’apostolo non insegna un rito che ha inventato, ma solo il gesto di Gesù e il significato che Gesù attribuisce allo spezzare del pane; il duro rimprovero che Paolo rivolge alla comunità di Corinto non è una espressione di un carattere difficile e aggressivo, ma è la sollecitudine perché il rito che raduna la comunità non sia mistificato e svuotato del suo significato. Per questo si celebra l’Eucaristia, per annunciare la morte di Gesù, finché egli venga.
Con l’ordinazione episcopale noi invochiamo ogni grazia per don Michele mentre gli diciamo: benvenuto, don Michele, tra coloro che sono inviati da Dio a farsi carico di un popolo senza sogni. Sappiamo che non ti spaventano le fatiche e le responsabilità. Ma in questo tempo in cui abita un popolo senza sogni, non il profeta solitario, non l’eroe protagonista, ma solo una comunità cristiana che vive intensamente la comunione con il Dio dei padri, con “Io-sono”, che alimenta la pienezza della gioia nell’intensa amicizia con Gesù, che riconosce nello spezzare del pane il mistero della morte di Gesù e ne attende la venuta, solo una Chiesa santa, lieta, radunata nel celebrare i santi misteri può farsi carico della speranza dell’umanità e annunciare il compimento delle promesse di Dio.
Ecco: il vescovo consegna quello che ha ricevuto, vive nella tradizione e nella comunione e incoraggia la testimonianza di tutta la Chiesa perché nell’umanità non abiti solo il gemito, ma si intoni il cantico della speranza.