1. Contare i morti
I morti sono forse dei numeri. Per fare notizia i morti si contano. Si dice: oggi in Ucraina sono morti cinquanta bambini; in Sud Sudan sono morti dieci mila profughi; in Palestina sono morti trecento civili, in Israele centocinquanta militari. I morti si contano e i numeri fanno impressione: c’è stato un incidente e sono morti nella macchina finita fuori strada cinque giovani.
I morti si contano, si parla dei morti con l’esclamativo della quantità.
I morti in quantità fanno impressione, ma i numeri non bastano per raccontare la storia. Se tra i cinque morti in macchina o i cinquemila morti in guerra io non conosco nessuno, se tra loro non c’è un mio amico o un parente, forse posso provare sconcerto e un’emozione passeggera.
I morti si contano, ma gli amici, i familiari, si nominano. E per ciascuno c’è un ricordo, uno strazio, un sentimento, una preghiera.
Così, anche in questo cimitero, quanti sono i morti sepolti? Eppure ciascuno viene qui non per contare i morti, ma per andare a quella tomba, dove è sepolta una storia d’amore, un ricordo d’ affetti unici, un motivo di gratitudine irripetibile.
I morti si contano, ma le persone, vive o morte, non si contano, si chiamano per nome.
2. Dio non conta, Dio incontra.
Nel rapporto con Dio non ci sono numeri, quantità, statistiche: ci sono solo persone.
Giobbe, dopo il complicato dramma del suo tormento e le prove attraversate dalla sua fede, conclude dicendo “io”: vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro.
Il morire non è un fatto di massa: ciascuno è solo e va incontro a Dio.
Il giudizio di Dio non è sull’umanità in generale, ma su ogni singola persona, su ogni singola storia.
Io mi presento al cospetto di Dio, io stesso, non un altro.
Di fronte a Dio io sono un figlio amato, non uno dei tanti, ma sono io, non un altro.
L’amore di Dio non è un amore generico, che riguarda tutti: è un amore personale che riguarda ciascuno, la vita, la via crucis, le scelte, i peccati e gli eroismi di ogni persona. Gli altri forse non ne sanno niente, mi confondono con la moltitudine, mi contano come un numero. Ma Dio mi abbraccia come un figlio unico e fa festa per il mio ritorno a casa, anche se me ne sono andato via.
3. Ecco: sono io!
L’evidenza che la morte non è l’iscrizione in un registro, ma è l’incontro personale con Gesù, convince del valore irripetibile di ogni persona.
Posso avere stima di me: Dio Padre mi guarda come il figlio unico. Gli altri possono classificarmi in base ai successi e ai risultati, i fallimenti e le appartenenze. Ma Dio Padre non classifica, non conta, mi considera invece unico, atteso, amato.
Il mio nome è pronunciato da Dio Padre perché sono al mondo per rispondere alla vocazione con cui mi ha chiamato: devo decidere, devo scegliere, non vivo a caso, non vivo come una fotocopia di altri originali. Tutti viviamo perché siamo chiamati alla vita, ma nessuno vive la vita di un altro, ciascuno è chiamato con una vocazione santa.
Sono responsabile della qualità della mia libertà. Non vivo in un deserto senza strade in cui ogni direzione è promettente e minacciosa. Sono chiamato a decidere su quale strada camminare. Ho la mia strada. Non può essere una buona scusa, se cammino imitando gli altri, adeguandomi alle scelte obbligatorie, ai comportamenti che sono imposti alla massa. Davanti a Dio non potrò giustificarmi dicendo: ho fatto come fanno tutti; mi sono comportato come molti; per stare al mondo devo omologarmi, altrimenti resto solo.
Io stesso, non un altro, devo scegliere, devo amare, devo decidere la speranza: la morte vien comunque per tutti, ma coloro che muoiono in Cristo non sono morti, ma diventano, come Gesù, figli unici, amati da Dio, chiamati a partecipare per sempre alla festa di Dio.