La sinodalità non è, e non può essere, una moda, una parola astratta e vuota, ma è snodo cruciale, in questo crocevia della storia, per il futuro di una Chiesa che vuole essere ancora «capace di intercettare le istanze e i bisogni delle donne e degli uomini di oggi per portare il messaggio di sempre». A dirlo – pur con accenti differenti, derivanti anche dalle esperienze maturate alla guida delle rispettive Chiese locali – sono stati il cardinale Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della Conferenza episcopale italiana, e l’Arcivescovo, impegnati in un dialogo a 360 gradi su «La Chiesa, cantiere di comunione e dialogo. Percorsi di sinodalità in Italia e a Milano».
Una serata affollatissima presso l’Auditorium Giovanni Paolo II della parrocchia milanese di Santa Maria del Rosario, moderata dalla giornalista di Avvenire Claudia La Via, che ha concluso al meglio la Settimana dei Centri culturali cattolici della Diocesi, promotori dell’iniziativa attraverso il loro Coordinamento, unitamente alla Zona pastorale I e al Cedac, storico Centro culturale fondato 43 anni fa da Walter Tobagi. Presenti in prima fila il vicario episcopale per Milano monsignor Carlo Azzimonti, il responsabile del Coordinamento don Gianluca Bernardini, il teologo Pierangelo Sequeri, il decano Giovanni Castiglioni, sacerdoti e animatori del Cedac, tra cui il 99enne Giorgio Bagliani, uno dei fondatori. A portare il suo saluto, anche a nome dei molti parrocchiani che non hanno voluto mancare a questo appuntamento di eccezione, il parroco don Marco Borghi.
Un cammino che parte dal basso
Dalle parole con cui papa Francesco ha definito la sinodalità – «non il capitolo di un trattato di ecclesiologia, tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare», ma ciò che esprime «la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione» – si avvia il confronto, nella convinzione che appunto per questo la sinodalità sia un «camminare insieme che parte dal basso», come dice il cardinale Zuppi. «La questione – aggiunge subito – è trovare i modi per farlo. Dal basso, sempre, ma anche con una rispondenza dall’alto perché cambino le forme dei percorsi condivisi; non per guardarci ancora una volta, ma per chiederci cosa ci chiede il mondo». Insomma, come già ha più volte indicato il Cardinale, «la sinodalità come esatto contrario dell’autoreferenzialità».
Concorde monsignor Delpini, che sottolinea il percorso realizzato con il Sinodo minore «Chiesa dalle Genti», avviato nel 2018 (vedi qui lo speciale), e con il Sinodo diocesano giunto al suo secondo anno (vedi qui lo speciale), dopo l’esperienza dei 56 Gruppi Barnaba decanali (su 63 Decanati), strumento di conoscenza delle realtà territoriali. Da qui la definizione della Chiesa ambrosiana come «esempio virtuoso di ascolto». «In questi mesi, attraverso il lavoro dei Gruppi Barnaba, abbiamo condiviso la gioia di raccontare quanto bene, magari sconosciuto, c’è nel territorio. La sinodalità è stato un lavoro di “mani”, più che di “carte”, e ciò implica una responsabilità: l’ascolto ci interroga non come professionisti cui si chiede una ricetta o una medicina, ma come discepoli in cammino, chiamati a compiere quell’aspetto della sinodalità che porta alla missione. Perché le persone sono sole? Perché sono disperate? Questo ci domanda una risposta. Lo strumento sinodale diventa così lo stile di una fraternità che diventa accogliente».
«La gente sola ci ferisce», osserva Zuppi che, parafrasando Delpini, scandisce: «Conservare la propria identità non significa rimanere al chiuso, anche se molti lo pensano. Questo è il pericolo maggiore. In termini comunitari e di Chiesa è la fine, perché il Signore ci ha sempre chiamati per andare. Bisogna farsi ferire dalle situazioni di solitudine e povertà e domandarsi cosa fare: la missione è questa. Non a caso le parole del Sinodo generale (vedi qui lo speciale) sono partecipazione, comunione e missione, ma il punto di partenza rimane la compassione. Se un nucleo familiare su tre in Emilia Romagna (ma il dato non è puramente regionale), è composto da una sola persona, vorrà dire qualcosa e ci deve interrogare». Così come devono farlo le migrazioni, su cui torna l’Arcivescovo in riferimento al Sinodo minore.
La Chiesa dalle genti
«A lungo i migranti sono stati interpretati come un capitolo riguardante solo la Caritas. In verità si è visto che l’enfasi sulla disperazione di alcune situazioni – come il naufragio dei barconi anche di questi giorni – ci abbia impedito di vedere le migliaia di persone che sono tra noi, magari impegnate in lavori che gli italiani non fanno più. Il Sinodo “Chiesa dalle Genti” è nato dall’intuizione che coloro che vengono da ogni parte del mondo arricchiscono la Chiesa di Milano. Non si tratta unicamente di assistere dei poveri, né di integrarli perché ci assomiglino, ma di avere consapevolezza che sono “germogli”, la possibilità di allargare l’orizzonte di questa nostra Chiesa che invecchia e che deve cambiare perché è cambiata la società».
Un percorso impegnativo – non si nasconde il Pastore di Milano – «che non è già segnato o compiuto, ma per il quale dobbiamo chiedere il dono dello Spirito, ricordando che la Chiesa ha il compito di annunciare il Vangelo che è come una carezza, ma anche come una profezia che contesta. Io credo che un segno di cui abbiamo bisogno sia la gioia. La città è piena di modi di divertirsi, ma forse abbiamo smarrito il segreto della gioia, di come incontrarla, così come la speranza. Dobbiamo imparare a dire alla città che c’è una ragione per cui vivere, anche se pare non interessare a nessuno. La sinodalità diviene, allora, quel convenire che permette di decidere le vie della missione. Non basta produrre parole o documenti, dobbiamo essere un segno del Regno che viene».
La sinodalità del buon vicinato
Dal titolo del primo Discorso alla Città dell’Arcivescovo «Per un’arte del buon vicinato» (2017, vedi qui lo speciale), riparte il cardinale Zuppi per delineare il senso di una sinodalità ordinaria che è missione: «Il vantaggio di questo momento, tra la pandemia e l’altra pandemia di domande che è la guerra, è la consapevolezza di essere nella stessa barca che può permetterci di riprendere una comunicazione con i nostri compagni di strada. Quando ci si accorge del peso della solitudine, occorre un linguaggio diverso per annunciare il messaggio di sempre. La Chiesa italiana ha scelto la definizione di cammino sinodale, lasciando un orizzonte di riferimento volutamente aperto. Camminare insieme significa anche interrogarsi sui ministeri (infatti nel Documento generale vi è anche una riflessione sul Clero) perché la Chiesa non vive per se stessa, ma per raggiungere tutti», spiega ancora l’Arcivescovo di Bologna, richiamando il valore dei suoi incontri con disabili e carcerati.
Il contributo della Chiesa ambrosiana
Il pensiero dell’Arcivescovo va a ciò che anche la Chiesa ambrosiana può e deve fare: «Spesso il racconto del presente tratteggia una specie di giudizio universale che fa torto a una situazione dove c’è anche gran bene. Mi pare, invece, che un aspetto bello della narrazione potrebbe essere il tema della conversazione, che è il modo con cui ci si ascolta a vicenda e si cerca insieme: un ascolto attivo. Proprio perché sappiamo chi siamo, possiamo forse accendere un po’ di fuoco per avere una città più accogliente. La conversazione è un modo di abitare un mondo come una casa: questo è stato lo stile dei Gruppi Barnaba, a cui dobbiamo molto. Mi sembra che il cambiamento delle parrocchie sia uno dei fattori fondamentali per riflettere. La Chiesa di Milano deve essere grata al Papa che ha messo in atto un movimento e una consultazione capillare che forse non è mai stata fatta nella storia».
Arriva, così, la parola «eccoci». «Eccoci, perché abbiamo qualcosa da offrire al volto di Chiesa che il Papa vuole costruire. Mi commuove pensare che questa terra di Milano è una terra di santi come Gianna Beretta Molla, don Gnocchi, Armida Barelli, don Mario Ciceri, don Luigi Monza, pur tanto diversi tra loro. Questa fioritura di santità può contagiare la gente, così come il numero di missionari che da Milano sono partiti e che partono per aiutare. Questa terra è generosa, si fa carico volentieri del dolore del mondo. Aiutateci, poveri del mondo, a comprendere la beatitudine della povertà, aiutateci ad amare la vita al punto di donarla e di mettere al mondo bimbi, perché la società non sia fatta di celle di eremiti».
Sul ruolo della nostra Chiesa conclude anche il cardinale Zuppi: «La Chiesa ambrosiana, con il suo rito, ha una caratterizzazione così forte che significa anche un grande esempio e un’indicazione per la Chiesa del futuro, al fine di saper cogliere e valorizzare le diversità e perché questo porti a essere un poliedro, per usare l’immagine di papa Francesco, oltre la tentazione dell’uniformità. Non è un cammino scontato. Abbiamo enorme bisogno, come si fa qui, di sapere coniugare le tante realizzazioni fattuali con la contemplazione e con la cultura, perché la nostra esperienza di cristiani nel mondo possa diventare chiave per interpretarlo e ponte di collegamento. La missione, la diversità nella comunione, la modernità spirituale e la cultura sono una responsabilità».