Al via da lunedì 16 aprile, un nuovo ciclo di catechesi guidato da monsignor Giuseppe Angelini. Cinque incontri del lunedì sera, in Facoltà, in aula 12 (ingresso da via dei Chiostri, 6) sul tema «La coscienza morale Una voce chiara o un brusìo confuso?»
Presentazione
L’idea di coscienza appartiene al numero delle grandi parole che la tradizione cristiana ha introdotto nella lingua dell’Occidente. Esse dicono dell’uomo e del suo destino, del senso della vita e della nobiltà della causa. Tali parole sono rimaste in circolo fino ad oggi; ma il loro senso è diventato assai incerto. Il rischio consistente è che ciascuno ne faccia l’uso che vuole. Viviamo in una società democratica – si dice – e anche l’uso delle grandi parole è affidato all’insindacabile competenza dei singoli. Magari si dice proprio è affidato alla coscienza.
Alla coscienza ciascuno si appella, per respingere ogni intrusione di altri. In tal modo la coscienza diventa però un’altra cosa rispetto a quanto intendeva la tradizione cristiana: non è più la voce interiore che mi chiama da oltre di me, ma è soltanto il mio modo di sentire. La voce interiore è definita per opposizione a quelle esteriori, dequalificate in fretta al rango di convenzioni sociali. La celebrazione della coscienza è la forma fondamentale dell’emancipazione del singolo dalla pressione esercitata dal contesto sociale. Il primato della coscienza diventa l’espressione centrale dell’epopea moderna del soggetto. Nell’accezione cristiana il primato della coscienza equivale invece al primato del rapporto con Dio, dunque della fede, rispetto al rapporto sociale.
Il termine coscienza è passato dalla tradizionale accezione morale a quella psicologica; essa non dice dei miei comportamenti per riferimento a Dio, ma per rapporto alla mia “autenticità”, alla fedeltà a me stesso.
Ma la di là della questione linguistica, esiste ancora la coscienza morale? Ovviamente sì, ma con altre caratteristiche rispetto a un tempo. Non ha proprio più la fisionomia della voce interiore imperativa, o della legge subito chiara e persuasiva, che indica quel che debbo fare. Ha piuttosto la fisionomia di un rumore di fondo, di un brusìo indistinto, del quale non si capisce bene il senso, e che tuttavia non può essere ignorato. La coscienza morale è in tal senso sempre più spesso trattata come un disturbo, un’interferenza da cancellare, anziché come un’istruzione necessaria a proposito della vita buona. In tal senso, la voce della coscienza è considerata sempre più spesso come una cosa di competenza degli psicologi ed è da essi trattata.
Il carattere indeterminato della voce interiore impone, in effetti, l’attenzione all’aspetto psicologico della coscienza; essa ha, ai suoi inizi, la forma di un confuso senso del dovere, che cerca attraverso le forme della relazione pratica con altri – con il padre e la madre anzi tutto – la propria determinazione. Il venir meno di un preciso codice di comportamento nei genitori, e sotto altro profilo il sequestro della vita famigliare rispetto alla vita sociale, rende assai meno automatico e chiaro il profilo testimoniale della famiglia; il profilo dunque per il quale la famiglia realizza l’addomesticamento del mondo, la testimonianza della legge universale dei rapporti umani.
La coscienza è stata oggetto di appassionata apologia nella stagione moderna, nel quadro dell’emancipazione del soggetto individuale dalla tutela sociale, nella quale egli era tenuto tradizionalmente. Il principio per il quale norma prossima dell’agire è il giudizio espresso dal soggetto stesso sui suoi comportamenti acquista rilievo crescente. Non stupisce che il Concilio Vaticano II, nel quadro del disegno programmatico di riconciliare la Chiesa con il mondo moderno, abbia proclamato l’inviolabile dignità della coscienza.
Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità (Gaudiun et spes, n. 16).
Si parli di legge o di voce, la coscienza è concepita come un’istanza interiore; sovrana proprio perché interiore, tale da non dipendere dalle incerte vicende esteriori. Questo aspetto della coscienza trova espressione paradigmatica nella famosa concezione di Kant, che vede in essa un imperativo categorico espresso dalla ragione a priori, a monte cioè rispetto alle forme della esperienza.
Questa rappresentazione della coscienza ha sullo sfondo una precisa situazione culturale; in essa le forme dell’ethos da tutti condiviso faceva apparire la legge o la voce come subito chiara e imperativa, a monte di evidenze in ipotesi dischiuse dall’esperienza pratica concreta.
Quello sfondo oggi non sussiste più. La coscienza sussiste ancora, certo. Non ha più però la fisionomia di voce subito chiara e persuasiva che risuoni dal cielo, o di legge indelebilmente scritta nell’anima. Ha piuttosto la fisionomia – come si diceva – di brusìo indistinto, del quale non si capisce bene il senso, ma dal quale neppure si può prescindere.
Sempre più spesso essa è trattata come un disturbo, un’interferenza da cancellare. Qualche cosa di simile alla noise dei vecchi dischi in vinile. Gli psicologi dicono spesso ai loro pazienti che debbono imparare ad amarsi di più; occorre amare sé stessi per imparare ad amare il prossimo. Non dice il vangelo stesso “Amerai il prossimo come te stesso”?
Il punto di vista degli psicologi è diventato, se non l’unico, quello assolutamente prevalente. Ancor prima di Freud, Nietzsche aveva espressamente ridotto la coscienza morale ad una traccia interiore lasciata dalla costrizione esteriore. In un famoso aforisma (contenuto in Umano, troppo umano (II, § 52) egli sentenzia:
Contenuto della coscienza. – Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel senso del dovere («questo lo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché debbo? – In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un ‘perché’, l’uomo agisce senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. – La fede nelle autorità è la fonte della coscienza; questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell’uomo, ma la voce di alcuni uomini nell’uomo.
Di fronte alla difficoltà obiettive di pensare il tema della coscienza confrontandosi con i nuovi approcci dei filosofi del sospetto, e poi soprattutto della psicologia e della sociologia, delle nuove scienze che dicono dell’umano a partire dall’esperienza, i teologi hanno mostrato fino ad ora di aver disertato il campo. Nella stagione successiva al Concilio, molti di loro hanno proposto addirittura di cancellare il tema dal registro di quelli trattati dai manuali, per lasciarlo alla competenza degli psicologi.
Cercheremo di rimediare a questa diserzione del campo. Proporremo una rinnovata riflessione cristiana sull’idea di coscienza. Il compito s’impone oggi con ragione di urgenza; per rompere un silenzio ormai insopportabile del pensiero cristiano, e soprattutto per conciliare il tratto categorico che di necessità l’imperativo morale deve avere con l’indubitabile tratto esperienziale e progressivo, addirittura fallibile, che assume il processo di formazione della coscienza.
La riflessione sarà proposta in un ciclo di cinque incontri, così articolati.