Al via da lunedì 12 ottobre il ciclo di catechesi tenuto dal parroco mons. Giuseppe Angelini (professore di Teologia Morale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e già preside della stessa Facoltà). Il tema scelto è “Misericordia voglio, e non sacrificio”. Verità e illusioni di una sintesi breve del vangelo?”.
I cinque incontri si svolgeranno nei lunedì dal 12 ottobre al 9 novembre a Milano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale con inizio alle 21. Per maggiori informazioni, vista il sito www.sansimpliciano.it.
Presentazione di mons. Angelini
Mosè sta per scendere dal monte Sinai; teme di farlo; prima vorrebbe vedere Dio in faccia. Dio dice che non si può. Passerà davanti a lui e proclamerà il suo nome. La solenne proclamazione prevede come suo primo attributo la misericordia: Egli è il misericordioso. Che vuol dire? Il testo mostra con chiarezza che tratto qualificante della misericordia è il perdono dei peccati; esso dura per mille generazioni, per sempre. E tuttavia Dio non lascia senza punizione la colpa; addirittura, punisce la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione.
L’idea che Dio punisca è diventata insopportabile. Molti la confinano entro l’Antico Testamento, e vedono in essa l’indice del tratto primitivo della religione di Mosè. Un Dio che non punisce però minaccia di scadere dalla figura di padre a quella di nonno. Minaccia di invecchiare, addirittura di morire. Perché la sua immagine rimanga quella di un Dio vivo e vivace è indispensabile che Egli chieda, comandi, e quindi che anche punisca.
Possibile che Dio punisca? Che il Padre del Signore nostro Gesù Cristo punisca? Nei tempi recenti molti cristiani pensano che il Dio annunciato da Gesù soltanto perdoni.
E invece no. La Legge e i Profeti sono antichi, ma non vecchi. Gesù non è venuto per abolire, ma per compiere. Anche la punizione di Dio dev’essere compresa in maniera compiuta e perfetta, e non cancellata. La sua misericordia non cancella il rigore delle sue attese; intende invece rendere perfetta e cordiale la nostra giustizia. La punizione stessa serve a tale perfezione.
Il Dio che non punisce mai, che non sa più punire, assomiglia molto a una mamma. In effetti, la lingua ecclesiastica recente, talora anche quella dei pontefici, per dire della misericordia di Dio predilige la lingua materna. Viene incontro a questo privilegio uno dei termini che l’ebraico usa per dire misericordia: rahamim; esso designa in origine le viscere della madre. Oltre a questo termine l’ebraico usa a la parola hesed, benevolenza, per dire misericordia. I due termini sono spesso associati; per esempio, il profeta Osea esprime la promessa di Dio così: Ti farò mia sposa per sempre nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza (hesed) e nell’amore (rahamim) (Os. 2, 21). La hesed è il primo movimento dell’amore di Dio, quello con cui Egli si curva sul suo figlio piccolo, quasi a tirarlo su e farlo crescere:
Quando Israele era giovinetto,
io l’ho amato
e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. (Os 11, 1)
Mentre rahamim è il fremito che prende, nel caso di Dio come nel caso degli umani, nel momento in cui si vede la persona amata perico-lo.
Il Dio misericordioso di Mosè è dunque un Dio che si commuove, ma anche punisce, prima di tutto punisce. Non certo per vendicarsi, ma per scrivere il suo comandamento nel cuore dei figli; soltanto se scritto nel cuore il comandamento è quello di Dio. Attraverso l’amarezza della colpa i figli impano la via del ritorno, sviluppano la loro fame e sete di giustizia; impareranno in che consista davvero la sua misericordia. Senza quella fame la sua misericordia diventa una favoletta per i bambini.
La misericordia di Dio non attenua le esigenze di giustizia; piuttosto le incide nel cuore. Il fatto che perdoni non significa che rinuncia a chiedere tutto e si accontenta di poco; proprio il suo perdono ha l’effetto di piegare il cuore del peccatore alla giustizia. Il legame stretto tra giustizia e misericordia accomuna Antico e Nuovo Testamento. La differenza è semmai un’altra: nell’Antico Testamento è spesso detto che soltanto a condizione di convertire il cuore è possibile conoscere la sua misericordia; mentre il vangelo di Gesù dice che soltanto se Dio manifesta la sua misericordia è, possibile che il peccatore cambi il cuore.
La precedenza della conversione rispetto al perdono, e quindi alla rivelazione della sua misericordia, è suggerito ad esempio da questo testo di Tobia, il libro che annuncia il ritorno dall’esilio, la misericordia dopo la punizione:
Convertitevi a lui con tutto il cuore e con tutta l’anima, / per fare la giustizia davanti a Lui, allora Egli si convertirà a voi / e non vi nasconderà il suo vol-to.
Convertitevi, o peccatori, e operate la giustizia davanti a lui; / chi sa che non torni ad amarvi e vi usi misericordia. (Tb 13, 6.8b)
La richiesta di un ritorno alla giustizia è anticipata rispetto alla promessa di conoscere la sua misericordia; la conversione tuttavia non è possibile che a questa condizione, che subito si creda alla sua misericordia, si conti su di essa, e non si cerchi invece di fare tornare i conti dei propri debiti tra sé e sé.
Gesù anticipa l’annuncio della misericordia del Padre alla richiesta di conversione; proprio quell’annuncio ha il potere di convertire, di iscrivere la giustizia di Dio nel cuore. Il nesso è illustrato bene dalla parabola del Padre misericordioso (Lc 15, 11-33): il figlio piccolo torna a casa non ancora sostenuto da un vero pentimento, ma per fame; a casa sua i servi sono trattati meglio di lui; torna per un motivo mercenario, e non per fame e sete di giustizia. La festa che il padre gli prepara, documento della sua misericordia, non lo autorizza a dimenticare il peccato precedente, anzi, ha il potere di fargli finalmente entrare il pentimento nel cuore. Il perdono esuberante lo punge, e in tal modo gli scrive la legge nel cuo-re.
Il rischio di intendere il vangelo della misericordia di Dio in maniera distorta appare oggi molto alto. Un tempo i comandamenti di Dio erano effettivamente scritti nel cuore. Non che fossero osservati. La disobbedienza è stata sempre frequente, e soprattutto l’obbedienza farisaica, con la bocca e non con il cuore. E tuttavia i comandamenti erano scritti dentro. Le formule usate dal grande filosofo, Immanuel Kant, assai enfatiche, descrivono la verità di un tempo:
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo da-vanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. (Critica della ragion pratica)
La situazione dell’uomo d’oggi è diversa; la legge morale non è una limpida e persuasiva evidenza, è soltanto un’oscura inquietudine. Non indica una via sicura e diritta da percorrere, solleva invece interrogativi e dubbi a proposito di tutte le vie percorse. La coscienza morale, più che essere una bussola, appare come un fastidioso rumore di fondo, quasi indecifrabile. Su questo sfondo, l’annuncio che Dio è misericordioso rischia di essere inteso come autorizzazione a non esasperarsi nell’ascolto dei rumori di sfondo. Dio vuole che tu sia contento, e non che ti tormenti.
La misericordia di Dio rischia d’essere intesa quasi fosse generica comprensione per il sofferente, piuttosto che come l’annuncio del perdono al peccatore. Nella preghiera dei salmi, e nella preghiera biblica in genere, l’appello alla misericordia di Dio accompagna sempre l’invocazione del perdono e la liberazione dai nemici; non l’invocazione della guarigione, o d’essere sollevati dalle proprie pene.
Il male radicale è l’inimicizia; quella che si vede più facilmente è quella che nasce dal conflitto con altri; quella che si vede meno e minaccia di più è invece quella che fa dubitare dei sentimenti di Dio nei nostri confronti. Alla sua misericordia occorre appellarsi per trovare le risorse necessarie per non soccombere di fronte alla minaccia dei nemici.