Daniele Comboni, unico superstite degli otto figli di Luigi e Domenica, Fin da giovane scelse di diventare missionario in Africa.
Ordinato sacerdote nel 1854, tre anni dopo sbarca in Africa. Il primo viaggio missionario finisce presto con un fallimento: l’inesperienza, il clima avverso, l’ostilità dei mercanti di schiavi costringono Daniele a tornare a Roma. Alcuni suoi compagni si lasciano vincere dallo scoramento, egli progetta un piano globale di evangelizzazione dell’Africa. Mette poi in atto una incisiva opera di sensibilizzazione a Roma e in Europa e fonda diversi istituti maschili e femminili, oggi chiamati comboniani. Di nuovo in Africa nel 1868, Daniele può finalmente dare avvio al suo piano. Con i sacerdoti e le suore che l’hanno seguito, si dedica all’educazione della gente di colore e lotta instancabilmente contro la tratta degli schiavi.
Riflette a lungo su quel disastro e su tanti altri, giungendo a conclusioni che saranno poi la base di un “Piano”, redatto nel 1864 a Roma. In esso Comboni chiede che tutta la Chiesa si impegni per la formazione religiosa e la promozione umana di tutta l’Africa. Il “Piano”, con le sue audaci innovazioni, è lodatissimo, ma non decolla. Poi, per avversioni varie e per la morte di don Mazza (1865), Comboni si ritrova solo, impotente.
Ma non cambia. Votato alla “Nigrizia”, ne diventa la voce che denuncia all’Europa le sue piaghe, a partire dallo schiavismo, proibito ufficialmente, ma in pratica trionfante. Quest’uomo che sarà poi vescovo e vicario apostolico dell’Africa centrale, vive un duro abbandono, finché il sostegno del suo vescovo, Luigi di Canossa, gli consente di tornare in Africa nel 1867, con una trentina di persone, fra cui tre padri Camilliani e tre suore francesi, aiuti preziosi per i malati. Nasce al Cairo il campo-base per il balzo verso Sud. Nascono le scuole. E proprio lì, nel 1869, molti personaggi venuti all’inaugurazione del Canale di Suez scoprono la prima novità di Comboni: non solo ragazzi neri che studiano, ma maestre nere che insegnano. Inaudito. Ma lui l’aveva detto: “L’Africa si deve salvare con l’Africa”.
Negli anni 1877-78 vive insieme con i suoi missionari e missionarie la tragedia di una siccità e carestia senza precedenti. Era l’anticipazione della morte sopraggiunta nel 1881. Nel 2003, nel giorno della canonizzazione, Giovanni Paolo II lo definì un «insigne evangelizzatore e protettore del Continente Nero».
La Chiesa ricorda oggi s. Casimiro di Polonia.
Nacque il 3 ottobre 1458, nel castello reale di Cracovia, terzo dei tredici figli di Casimiro IV Jagellonide, re di Polonia e granduca di Lituania. Destinato al trono di Ungheria, ricevette un’adeguata formazione umana e una profonda educazione cristiana. Le vicende politiche del tempo non lo condussero al trono designato, ma Casimiro ancora giovanissimo si interessò della vita pubblica del suo paese, e rimase accanto al padre, accompagnandolo nei viaggi in Lituania e sostituendolo nelle varie mansioni amministrative.
Negli impegni del suo stato operò sempre con vivo senso della giustizia, coltivò le virtù cristiane, rifulgendo in particolare per la castità perfetta, la carità verso i poveri e i bisognosi, lo zelo instancabile per la fede cattolica. Particolarmente vivo nella sua pietà l’amore all’Eucaristia e la devozione alla Vergine Maria. Colpito da tisi, morì appena venticinquenne nel castello di Gradinas, in Lituania, il 4 marzo 1484. La nazione lituana lo venera come principale patrono. A lui sono dedicate molte chiese nella sua terra e in altre nazioni, dovunque si trovino emigrati lituani o polacchi.