Fm 1,1-7; Sal 91 (92); Lc 20,27-40
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi». (Lc 20,34-38a)
Gesù, davanti a una storia emblematica, ha l’occasione di chiarire che la fede nella risurrezione ci apre a un mondo nuovo. Ciò non vuol dire vivere un’esistenza irreale, asessuata – come possiamo immaginare la vita degli angeli – ma, facendo riferimento al significato biblico, vivere un’esistenza in cui ci si sente sempre alla presenza di Dio, inseriti nella sua vita divina e, conseguentemente, messaggeri di questa certezza nel nostro quotidiano.
Gesù poi, citando il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ci fa capire come Dio non sia un essere impersonale. Egli è, al contrario, un Dio desideroso di creare con ciascuno di noi un legame profondo e un’esperienza intima, perché siamo suoi figli.
Preghiamo
O Signore,
suscita in noi il desiderio
di essere collaboratori del regno della vita
perché «si tratta di amare Dio
che regna nel mondo» (EG 180).