Giovedì 27 aprile
At 4,32-37; Sal 92 (93); Gv 3,7b-15
Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,13-15).
I simboli spaziali indicano differenti dimensioni: il cielo richiama il mistero di Dio, la terra il luogo abitato dagli uomini. All’uomo non è possibile salire al cielo, ma Gesù, il Figlio dell’uomo, è disceso dal cielo. Tuttavia nel discorso con Nicodemo Gesù fa riferimento a un episodio narrato nel libro dei Numeri, nel quale Mosè innalza un serpente di bronzo sopra un’asta (cfr. Nm 21,4-9). Gli Israeliti che, morsi dai serpenti, avessero guardato a quel simbolo, non sarebbero morti. Che cosa rappresenta il serpente? Anzitutto la bramosia insoddisfatta (volere più e meglio della manna) e il sospetto che Dio voglia la morte del popolo. D’altra parte è il segno della volontà di vita di Dio che chiede a Mosè di innalzarlo per rispondere alla domanda di salvezza del popolo. Guardare il serpente non significa allora godere di una magia, ma accettare di vedere in faccia ciò che, nell’intimo, conduce alla morte, cioè la logica mortifera del serpente. Questo sguardo è consapevolezza della colpa e fiducia in Mosè che testimonia la costante volontà di vita di Dio.
Preghiamo
La croce gloriosa del Signore risorto
è l’albero della mia salvezza:
di esso mi nutro, di esso mi diletto,
nelle sue radici cresco, nei suoi rami mi distendo.
[da: La Parola ogni giorno. L’esistenza “in Cristo”, Quaresima e Pasqua 2017, Centro Ambrosiano, Milano]