In Piazza Fontana si condensa la memoria di un passato che di continuo richiede di essere riletto, compreso, interpretato. In una parola, riascoltato. Interrompendo magari le frenetiche giornate milanesi con una visita e uno spazio di silenzio – quello che il traffico incessante concede – soffermandosi davanti a lapide e corone, scorrendo la lista in doppia fila di nomi incisi nel marmo, ripercorrendo tratti incancellabili di questi quattro decenni di vita milanese. In effetti, Piazza Fontana rimane sede di una memoria difficile da cancellare, come tutte le pagine dolenti del passato di una intera città. Ha rappresentato una lacerazione, una ferita profonda per tutti. Tempo fa, ho avuto l’occasione di ascoltare il racconto di quelle ore terribili dalla viva voce di un testimone, una persona giunta sul posto poco dopo la drammatica esplosione. Mi ha ricondotto ad uno scenario dominato da sangue, urla, pianti che si sovrapponevano alle sirene dei mezzi di soccorso. E poi, diradatosi il fumo, quella grande buca, quel cratere lasciato dalla bomba. Una ferita aperta, un vuoto profondo creato dalla logica della violenza e del terrore, che ha ingoiato vite umane, ha colpito intere famiglie, ha percosso l’intera città, ha scavato un solco nel suo tessuto sociale. Quel solco tante volte approfondito dalla cosiddetta “strategia della tensione” che proprio da Piazza Fontana ha tratto le sue origini, inaugurando i cosiddetti “anni di piombo”, che più volte, troppe volte, hanno insanguinato le strade e le piazze di questa nostra città.
Milano, però, non è rimasta inerte. Ha raccolto la sfida, si è ripresa, ha saputo reagire alla logica del terrorismo, della violenza sfrenata di pochi che pretendeva di imporsi a tutti nell’arco di tempo del bagliore di un’esplosione o di una scarica di proiettili.Milano ha risposto, ha reagito; ha saputo riprendersi. Nel tempo, nei fatti. Con la solida determinazione di una cittadinanza che in tutte le sue componenti non si è mai inginocchiata né arresa, riproponendo di continuo il suo volto di laboriosità, di coesione sociale, per quanto ferita e minacciata. Manifestando anche apertamente il proprio comune sentire: indimenticabile rimane la partecipazione alle esequie di Walter Tobagi. La città ha risposto con la compostezza di un tessuto sociale che in molti modi, per lo più non appariscenti, a partire dalla quotidianità del suo vissuto, delle sue relazioni, del suo mondo associativo, dell’agire responsabile di molti, ha ripetuto e confermato il suo “no” alla logica distruttiva del terrorismo.
A quarant’anni di distanza, la sfida dev’essere di nuovo raccolta. E’ questa la ragione per cui facciamo memoria di una delle stragi più drammatiche – e tuttora impunite della storia del nostro Paese. Non soltanto per volgere lo sguardo al passato, ma per guardare con occhi rinnovati attorno a noi, per scorgere nel nostro tempo quei segni che annunciano risposte vere alle “strategie della tensione” di ieri e di oggi. Quei segni che dicono di legami, personali e sociali, solidi perché capaci di esprimere solidarietà, apertura, accoglienza. Verso tutti.
Quei segni che indicano vera volontà di dialogo, di gratuità, disinteresse. Nonostante la creazione di sempre nuove barricate prosegua di gran carriera e individualismo e ricerca del proprio tornaconto personale non cessino di stringere tra loro alleanze inedite. Quei segni, soprattutto, che ci parlano di futuro, ci aiutano a spingere lo sguardo oltre. Oltre l’immediato, l’effimero, il provvisorio. Che ci indirizzano nella direzione di una rinnovata progettualità. Come ci ha recentemente richiamato l’Arcivescovo, in occasione dell’ultimo Discorso alla Città, “si esige un cambiamento radicale, lungimirante e teso al bene comune globale. Si esige una progettazione di ampio respiro, capace di andare oltre le risposte immediate ed effimere, capace di dare un volto nuovo alla nostra Città. Una progettazione che riguardi tutti i grandi capitoli della vita sociale”.
Perché se la carica distruttrice del terrorismo di quarant’anni fa può dirsi sconfitta, occorre vigilare su altre forme, certo più sottili, ma non meno pervicaci, di violenza. Da quella verbale, intimidatoria, al dilagare dell’indifferenza che opprime ed esclude, del giudizio privo di qualsiasi senso della misura, dell’utilizzo strumentale del pensiero e dell’agire altrui per far sì che si prendano distanze nette gli uni dagli altri, non si tenda invece alla reciproca comprensione, alla collaborazione, all’edificazione di una città a misura di uomo – di ogni persona umana – e della sua dignità irrinunciabile.
Occorre allora guardare avanti; in profondità. E con determinazione, come ancora ci suggerisce l’Arcivescovo, indicandoci la traccia di un fecondo, comune cammino: “In questa prospettiva va promossa con decisione una “nuova solidarietà” che assuma la forma di una vera e propria “alleanza” intesa come incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile, ovviamente nel rispetto delle diverse competenze e nel segno di una reciproca fiducia: si pensi, in particolare, all’urgenza di una simile alleanza nei fondamentali ambiti della scuola, del lavoro, della salute, della lotta alle varie forme di povertà e di emarginazione sociale”.
È ciò di cui abbiamo bisogno: educarci – tutti, ciascuno secondo la propria competenza, capacità – a guardare al futuro, a quanto ci è possibile costruire in questa direzione, fin dal prossimo passo. Tutti; e insieme. Senza indugiare nell’aspettativa di soluzioni facili o di prospettive semplificatrici, o nell’attesa che per prima cosa altri comincino ad assumersi le rispettive responsabilità. La risposta al terrorismo e alla violenza di ieri e di oggi esige coralità, costanza, partecipazione. Sapremo raccogliere la sfida? Siamo consapevoli che la risposta non può che giungere da un agire pienamente rinnovato. Che affidiamo, con le parole del Cardinale, all’unico Signore della storia: “È dunque a Cristo che dobbiamo guardare, come singole persone, come città di Milano, a lui che è il “buon samaritano” e che vuole continuare a essere presente e operante nella storia dell’umanità ferita e bisognosa di “cura” tramite la nostra mediazione”. In Piazza Fontana si condensa la memoria di un passato che di continuo richiede di essere riletto, compreso, interpretato. In una parola, riascoltato. Interrompendo magari le frenetiche giornate milanesi con una visita e uno spazio di silenzio – quello che il traffico incessante concede – soffermandosi davanti a lapide e corone, scorrendo la lista in doppia fila di nomi incisi nel marmo, ripercorrendo tratti incancellabili di questi quattro decenni di vita milanese. In effetti, Piazza Fontana rimane sede di una memoria difficile da cancellare, come tutte le pagine dolenti del passato di una intera città. Ha rappresentato una lacerazione, una ferita profonda per tutti. Tempo fa, ho avuto l’occasione di ascoltare il racconto di quelle ore terribili dalla viva voce di un testimone, una persona giunta sul posto poco dopo la drammatica esplosione. Mi ha ricondotto ad uno scenario dominato da sangue, urla, pianti che si sovrapponevano alle sirene dei mezzi di soccorso. E poi, diradatosi il fumo, quella grande buca, quel cratere lasciato dalla bomba. Una ferita aperta, un vuoto profondo creato dalla logica della violenza e del terrore, che ha ingoiato vite umane, ha colpito intere famiglie, ha percosso l’intera città, ha scavato un solco nel suo tessuto sociale. Quel solco tante volte approfondito dalla cosiddetta “strategia della tensione” che proprio da Piazza Fontana ha tratto le sue origini, inaugurando i cosiddetti “anni di piombo”, che più volte, troppe volte, hanno insanguinato le strade e le piazze di questa nostra città.Milano, però, non è rimasta inerte. Ha raccolto la sfida, si è ripresa, ha saputo reagire alla logica del terrorismo, della violenza sfrenata di pochi che pretendeva di imporsi a tutti nell’arco di tempo del bagliore di un’esplosione o di una scarica di proiettili.Milano ha risposto, ha reagito; ha saputo riprendersi. Nel tempo, nei fatti. Con la solida determinazione di una cittadinanza che in tutte le sue componenti non si è mai inginocchiata né arresa, riproponendo di continuo il suo volto di laboriosità, di coesione sociale, per quanto ferita e minacciata. Manifestando anche apertamente il proprio comune sentire: indimenticabile rimane la partecipazione alle esequie di Walter Tobagi. La città ha risposto con la compostezza di un tessuto sociale che in molti modi, per lo più non appariscenti, a partire dalla quotidianità del suo vissuto, delle sue relazioni, del suo mondo associativo, dell’agire responsabile di molti, ha ripetuto e confermato il suo “no” alla logica distruttiva del terrorismo.A quarant’anni di distanza, la sfida dev’essere di nuovo raccolta. E’ questa la ragione per cui facciamo memoria di una delle stragi più drammatiche – e tuttora impunite della storia del nostro Paese. Non soltanto per volgere lo sguardo al passato, ma per guardare con occhi rinnovati attorno a noi, per scorgere nel nostro tempo quei segni che annunciano risposte vere alle “strategie della tensione” di ieri e di oggi. Quei segni che dicono di legami, personali e sociali, solidi perché capaci di esprimere solidarietà, apertura, accoglienza. Verso tutti.Quei segni che indicano vera volontà di dialogo, di gratuità, disinteresse. Nonostante la creazione di sempre nuove barricate prosegua di gran carriera e individualismo e ricerca del proprio tornaconto personale non cessino di stringere tra loro alleanze inedite. Quei segni, soprattutto, che ci parlano di futuro, ci aiutano a spingere lo sguardo oltre. Oltre l’immediato, l’effimero, il provvisorio. Che ci indirizzano nella direzione di una rinnovata progettualità. Come ci ha recentemente richiamato l’Arcivescovo, in occasione dell’ultimo Discorso alla Città, “si esige un cambiamento radicale, lungimirante e teso al bene comune globale. Si esige una progettazione di ampio respiro, capace di andare oltre le risposte immediate ed effimere, capace di dare un volto nuovo alla nostra Città. Una progettazione che riguardi tutti i grandi capitoli della vita sociale”.Perché se la carica distruttrice del terrorismo di quarant’anni fa può dirsi sconfitta, occorre vigilare su altre forme, certo più sottili, ma non meno pervicaci, di violenza. Da quella verbale, intimidatoria, al dilagare dell’indifferenza che opprime ed esclude, del giudizio privo di qualsiasi senso della misura, dell’utilizzo strumentale del pensiero e dell’agire altrui per far sì che si prendano distanze nette gli uni dagli altri, non si tenda invece alla reciproca comprensione, alla collaborazione, all’edificazione di una città a misura di uomo – di ogni persona umana – e della sua dignità irrinunciabile.Occorre allora guardare avanti; in profondità. E con determinazione, come ancora ci suggerisce l’Arcivescovo, indicandoci la traccia di un fecondo, comune cammino: “In questa prospettiva va promossa con decisione una “nuova solidarietà” che assuma la forma di una vera e propria “alleanza” intesa come incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile, ovviamente nel rispetto delle diverse competenze e nel segno di una reciproca fiducia: si pensi, in particolare, all’urgenza di una simile alleanza nei fondamentali ambiti della scuola, del lavoro, della salute, della lotta alle varie forme di povertà e di emarginazione sociale”.È ciò di cui abbiamo bisogno: educarci – tutti, ciascuno secondo la propria competenza, capacità – a guardare al futuro, a quanto ci è possibile costruire in questa direzione, fin dal prossimo passo. Tutti; e insieme. Senza indugiare nell’aspettativa di soluzioni facili o di prospettive semplificatrici, o nell’attesa che per prima cosa altri comincino ad assumersi le rispettive responsabilità. La risposta al terrorismo e alla violenza di ieri e di oggi esige coralità, costanza, partecipazione. Sapremo raccogliere la sfida? Siamo consapevoli che la risposta non può che giungere da un agire pienamente rinnovato. Che affidiamo, con le parole del Cardinale, all’unico Signore della storia: “È dunque a Cristo che dobbiamo guardare, come singole persone, come città di Milano, a lui che è il “buon samaritano” e che vuole continuare a essere presente e operante nella storia dell’umanità ferita e bisognosa di “cura” tramite la nostra mediazione”.