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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Due anni fa a Trebisonda moriva don Andrea Santoro

Domenica 5 febbraio del 2006, alle ore 15.45, venne ucciso con due colpi di pistola mentre stava pregando in chiesa

5 Giugno 2008

05/02/2008

di Lia MANCINI

Era domenica 5 febbraio del 2006. Ore 15.45. Don Andrea Santoro, 61 anni, stava pregando nella piccola chiesa di Trebisonda, in Turchia. Era inginocchiato e di spalle quando un uomo, armato di pistola, spara due colpi. Uno lo colpisce al cuore e don Andrea muore subito. “Sono disposto ad andare in situazioni di missione: parlo di missione vera e propria, all’estero o in situazioni di estrema precarietà, presenti anche in Italia e a Roma”. Con queste parole si esprimeva don Andrea Santoro in una lettera degli anni Ottanta: ce lo racconta Augusto D’Angelo, autore di una biografia sul prete romano. “Negli anni che lo videro attivo parroco dei quartieri del centro e della periferia di Roma, don Andrea non celava la sua inquietudine, che lo portò, a sessant’anni, a scegliere la vita fidei donum: la diocesi di Roma donava uno dei suoi sacerdoti per una destinazione di fede, per don Andrea la desiderata Turchia”. Abbiamo chiesto ad Augusto D’Angelo, storico e docente all’Università “La Sapienza”, di parlarci del sacerdote romano.

Qual è stato l’itinerario che ha portato don Andrea dalla parrocchia romana alla scelta fidei donum?
Don Andrea è cresciuto e si è formato durante gli anni del Concilio. Ha vissuto intensamente i primi anni come vice parroco al centro di Roma. Fu invitato dal card. Poletti a fare il parroco in una zona periferica di Roma, dove non c’era nemmeno la chiesa. In pochi anni don Andrea era riuscito a costruire l’edificio e la comunità parrocchiale, che volle intitolare a Gesù di Nazareth. Dal 1994 è parroco ai Ss. Fabiano e Venanzio. Infine nel 2000, dopo il Giubileo, il card. Ruini gli concede la destinazione fidei donum, in Turchia. Già l’esperienza romana di don Andrea è quella di un grande edificatore, punto di riferimento per tanti. Tuttavia Santoro manifesta in tutti questi anni una certa «irrequietezza», desideroso di spendersi in terra di missione.

Perché la scelta della Turchia?
Don Andrea aveva scelto spesso, già dal 1980, i luoghi dell’evangelizzazione paolina come meta di pellegrinaggio, poiché sentiva quelli come luoghi ponte dell’annuncio evangelico da Gerusalemme verso Roma. Sentiva un forte senso di debito verso regioni che avevano visto fiorenti comunità suscitate dall’Apostolo delle genti. E data l’estinzione progressiva di quelle comunità cristiane, il desiderio di don Santoro era di riconfermare lì l’annuncio evangelico, per sostenerne la pur piccola presenza. La prima destinazione in Turchia è Urfa. Poi Trebisonda, dove don Andrea non lesina il conforto della sua visita ad alcun cristiano, di qualsiasi tradizione: pochi i cattolici, alcune presenze di siriaci, più numerosi gli ortodossi, soprattutto tra i più disagiati. Coraggioso è il suo intervento di riscatto delle donne immigrate sfruttate dalla prostituzione, molte di tradizione ortodossa.

Si aspettava di morire?
Don Andrea, nel desiderio di radicalità che coltivava fin dalle origini della sua vocazione, considerava il martirio come parte della vocazione cui era stato chiamato, un patrimonio della Chiesa. Infatti, nel ricordo della sua ordinazione aveva riproposto le parole di Gesù riportate in Gv 6,51: «Il pane che io darò è la mia carne». Tuttavia, in una delle ultime lettere all’anziana madre, aveva chiesto di pregare per lui e gli altri suoi figli quando li avrebbe guardati dal cielo. Evidentemente non immaginava di precederla.

Cosa vuol dire ricordare don Andrea?
Vuol dire imparare a conoscerlo meglio; leggere e pregare per gli orizzonti che gli stavano a cuore e non dimenticare tutte quelle realtà in cui c’è bisogno. Non dimenticare tutte quelle minoranze che comunque costituiscono una presenza nel mondo, e soprattutto in Medio Oriente. Proprio in questo secondo anniversario un pellegrinaggio a Trabzon si concluderà con una celebrazione eucaristica presieduta da mons. Vincenzo Paglia, presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Cei, nel luogo del martirio di don Andrea, con mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia.

Quale eredità ha lasciato il viaggio di Benedetto XVI in Turchia?
Il viaggio di Benedetto XVI ha sottolineato l’importanza dei rapporti con l’islam e ha mostrato alla Turchia che è ormai tradizione che i Papi guardino ad Oriente e la visitino. Le due immagini di papa Benedetto in raccoglimento nella Moschea Blu e l’incontro con il patriarca Bartolomeo, che rappresenta la memoria vivente di quel ponte che la Turchia è stata per la fede, segnano un punto alto del viaggio, restano nella nostra memoria e diventano patrimonio della Chiesa e del mondo.