03/11/2008
di Filippo MAGNI
«Non chiamateci collegio o Istituto, siamo una casa famiglia», raccomanda sorella Patrizia Pironi, responsabile di progetto del Centro Mamma Rita di Monza. La religiosa, dell’ordine delle Minime oblate del cuore immacolato di Maria, descrive il Centro come una realtà più unica che rara nel panorama delle case di accoglienza: è praticamente un condominio, dove ciascuna delle 12 piccole comunità educative residenti possiede un proprio appartamento che garantisce intimità e riservatezza. Ogni ragazzo ospite del Centro ha infatti una stanza propria, che condivide al massimo con un compagno.
«Formalmente – prosegue la religiosa – siamo un Istituto, ma in realtà non lo siamo mai stati. Non ci consideriamo neppure sostituti della famiglia d’origine per i ragazzi che ci vengono affidati, piuttosto dei supplenti che entrano in gioco in un periodo di emergenza». I bambini del Mamma Rita non sono orfani, ma hanno genitori incapaci di crescerli ed educarli. Nella maggior parte dei casi vengono dunque allontanati dalla famiglia e affidati alle religiose; più raramente, sono ospitati al Centro insieme alla madre. Questo avviene, spiega sorella Patrizia, «quando la donna è considerata “risorsa positiva” e dunque la vicinanza con il figlio dà forza sia a lei che al bimbo».
Ogni ospite del Mamma Rita ha storia e caratteristiche proprie: li accomuna un’infanzia difficile, con genitori assenti o distrutti dalle droghe. Sono diversi i bimbi che già a 3 anni conoscono «la polvere bianca che fa litigare mamma e papà» o quelli costretti a mendicare fin da giovanissimi. C’è chi ha visto il padre picchiare ogni giorno la madre e chi viveva gettato a terra all’angolo di una via, con una scatola di cartone come casa.
Drammi personali che non devono però pregiudicare il futuro. «Èimportante che le loro difficoltà non diventino un pretesto per piangersi addosso», afferma decisa sorella Rosalia. La religiosa ha un’opinione precisa: «Le persone che commiserano i nostri ragazzi fanno loro del male. Gli ospiti del Mamma Rita devono capire che hanno le stesse opportunità dei loro coetanei, altrimenti penseranno di aver diritto all’assistenza per tutta la vita, a risarcimento sociale delle sofferenze patite da piccoli». Sorella Rosalia ricorda il caso di una ragazzina che si fingeva malata per non recarsi a scuola: uno stratagemma comune e che quasi tutti i bimbi hanno usato, almeno una volta nella vita, ma che diventa pericoloso se si trasforma in abitudine.
«Èin queste situazioni che non si deve indulgere troppo: le mamme delle compagne di classe venivano a visitarla al Centro, chiedendole cosa avesse. Io ho detto loro di non preoccuparsi più, di non mostrare tutta questa attenzione». Un atteggiamento duro, ma che ha avuto effetto, racconta orgogliosa la sorella, perché «la ragazza ha ricominciato ad andare a scuola, ha terminato il liceo classico, si è laureata in economia con 110 e lode e ora vive e lavora a Londra».
Èun legame particolare quello che si crea tra gli ospiti e le loro “mamme supplenti”. Tutte le religiose ricordano il caso di una ragazza, ospite del Centro tra i 6 e gli 8 anni e in seguito adottata da una famiglia del Monzese. Felicissima nella nuova famiglia, ha però sempre guardato con occhio di riguardo le sorelle, tanto da comunicare a loro prima ancora che ai genitori le scelte importanti della propria vita come quelle di fidanzarsi, sposarsi e laurearsi. Alla domanda logica delle suore: «Perché lo dici prima a noi, che ti abbiamo ospitata per soli due anni?», la risposta è spiazzante: «Perché la mia vita è iniziata qui al Mamma Rita».
Per molte storie “a lieto fine”, ce ne sono altrettante in cui i ragazzi non escono dalla situazione di bisogno in cui si trovano. È il caso soprattutto degli extracomunitari, che vivono una condizione paradossale: fino alla soglia della maggiore età godono di tutti i diritti civili, sono equiparati a cittadini italiani. Possono dunque contare sulla sanità e studiare per costruirsi un futuro dignitoso. Compiuti i 18 anni si trovano improvvisamente a essere irregolari: lo Stato chiede loro, per restare in Italia, di trovare immediatamente una casa e un’occupazione. «Èevidente – conclude sorella Patrizia – che queste condizioni sono proibitive: non esistono ragazzi, neanche italiani, che autonomamente a 18 anni possono trovare un’abitazione e lavoro. Così si rischia che i nostri ragazzi, anziché trovare il loro posto nel mondo, entrino in una condizione di clandestinità e illegalità, loro che clandestini non lo sono mai stati».