Nel suo ultimo libro Capaci di infinito (Marcianum Press), l’Arcivescovo, cardinale Angelo Scola, così disegna l’essenza dell’uomo: desidera l’infinito, eppure è conchiuso nel finito. Dunque, è possibile cogliere, scrive il Cardinale, il «mistero dall’interno della concretezza della vita di tutti i giorni». Questo mistero è ciò che chiamiamo Dio.
Tre sono i passi verso tale mistero. Anzitutto la facoltà di interessarsi e afferrare la realtà fuori di noi: è già un modo per oltrepassare il semplice qui e ora. Il secondo passo, più importante, è la relazione interpersonale: è nel rapporto con l’altro che l’Altro mi interpella. Il terzo passo verso il mistero sta nel cogliere la nostra finitudine, percezione che si acuisce nel tempo della maturità.
Questi tre passi devono essere illuminati da Gesù Cristo; Lui, via, verità e vita, ricorda Scola, «ci aiuta a dare un nome proprio, un nome preciso, all’esperienza umana che noi compiamo». Ciò anzitutto perché tutto è creato per mezzo di Lui, e perché una vita autentica è vocazione, cioè continua conversione, come è stato per Pietro, per Paolo, per tutti i veri cristiani che, nonostante i propri limiti, si lasciano animare e rianimare dal dono della fede, un dono che nasce dalla relazione con Gesù e che coinvolge e matura ogni aspetto della vita umana, anche la razionalità. La fede – è un equivoco superato – non si colloca dove la ragione non arriva: la fede anzi incoraggia e rafforza la ragione umana. Scriveva Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità», anzi «si può dire che la fede sia la dimensione più elevata, la dimensione critica della ragione».
È seducente una vita immersa in Gesù: in lui il Dio della vita svela un tale amore per l’uomo da osare lo scandalo della morte di croce. Afferma l’Arcivescovo: «Il Crocifisso è la misericordia personificata. Alla fine non si capisce nulla dell’umano se non si capisce qualcosa dell’amore». E questo Crocifisso non si chiude nella morte, ma si apre nell’evento unico della Risurrezione, che è fatto storico inseparabile dalla fede. I discepoli, terrorizzati dopo lo strazio del Golgota, mai avrebbero trovato motivo per uscire e proclamare la Risurrezione di Cristo se non avessero incontestabilmente incontrato il Risorto. L’Arcivescovo rimarca: «Questo per me è il segno che racchiude tutti i segni» del Risorto.
Il Risorto ci insegna anche che non è la teoria a fornirci una risposta al dramma del dolore innocente: il dolore va affrontato e condiviso, Gesù non scende dalla croce e offre a ogni uomo sofferente lo sguardo di chi ben conosce il patire. Si schiude così una solidarietà unica tra Dio e l’uomo sofferente: «La risposta a questa questione è […] l’esperienza dell’amore accolto e dell’amore donato, non c’è un’altra risposta – si legge nel libro -. Così persino il male morale, persino il peccato che io compio, è vinto dall’amore di Cristo che lo perdona, se io domando questo perdono riconoscendo il mio peccato». Il credente, così, è il testimone dell’unicità e la ricchezza di una vita fondata su quest’incontro con Cristo.