Un sussidio che «affronti i diversi tasselli del mosaico della formazione permanente del clero» e che, quindi, sintetizzi il lavoro svolto, a più livelli, dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) negli ultimi anni. La notizia dell’elaborazione di questo testo, giunta a conclusione dell’ultimo Consiglio episcopale permanente (Roma, 26-28 settembre), ripropone l’importanza di uno dei temi – il rinnovamento del clero – che sta a cuore all’episcopato italiano. Monsignor Gualtiero Sigismondi, vescovo di Foligno, è il presidente della Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata. Ha quindi seguito da vicino il percorso compiuto, iniziato da monsignor Francesco Lambiasi, vescovo di Rimini, quando era presidente della stessa Commissione.
Quali sono i tasselli della formazione permanente?
«Li raccoglierei attorno all’immagine della porta, molto suggestiva e anche evocativa nell’Anno santo che stiamo vivendo. C’è anzitutto la soglia che è la formazione iniziale. Poi ci sono i due stipiti della paternità episcopale e della fraternità sacramentale. L’architrave, senz’altro, è la cura della vita interiore. E la chiave che spalanca questa porta è la carità pastorale».
Ci aiuta ad “attraversare” questa porta? Siamo sulla soglia: la formazione iniziale, ovvero il percorso in Seminario. La scelta pare chiara: non c’è formazione permanente che possa supplire un deficit di formazione iniziale.
«L’esperienza insegna che la tenuta e la qualità di un presbiterio dipendono dal seminario e, in buona parte, dai formatori, ai quali è affidato il compito di discernere e accompagnare il cammino dei seminaristi. È importante che un educatore si dedichi a tempo pieno a questo servizio, per aiutare i seminaristi a rispondere alla domanda vocazionale fondamentale: “Chi sei, o Signore?”. Questo è l’interrogativo di fondo che scandisce il “tempo forte” del Seminario, una stagione carica di promesse in cui si apprende l’arte di “tenere fisso lo sguardo su Gesù”. Nel discernimento vocazionale lo sguardo è molto importante: è la spia che indica dove si è diretti con la mente e con il cuore. Sono gli occhi, “lampada del corpo”, a rivelare dove risiede la mente e dove abita il cuore».
Dalla soglia agli stipiti della nostra porta… Parliamo della paternità episcopale e della fraternità sacramentale. Sono temi che stanno molto a cuore a papa Francesco che non smette di sollecitare i vescovi a essere vicini ai preti.
«Il Papa parla di prossimità del vescovo ai presbiteri. Il rinnovamento del clero e, di conseguenza, la sua formazione permanente hanno bisogno di un vescovo che sia anche lui dedicato a tempo pieno a questo servizio. La formazione permanente del clero ha, dunque, nell’agenda del vescovo la cartina di tornasole: detta le scelte da compiere nell’organizzazione delle giornate, nella distribuzione del tempo, nell’accettazione di impegni e interventi. Aiutando i preti a sentire la paternità episcopale, sarà più facile per loro gustare la fraternità sacerdotale».
L’esercizio della paternità è un’esigenza condivisa dai vescovi?
«Prendersi cura dei preti e dei diaconi è la prima scelta pastorale di un vescovo. La conversione missionaria della pastorale, a cui papa Francesco ci sta sollecitando, non si può realizzare senza un presbiterio affiatato, unito, che sia “un cuor solo e un’anima sola”. L’esigenza di “camminare insieme”, “prima forma di evangelizzazione”, non risponde al criterio “l’unione fa la forza” ma a questa regola di vita fraterna: “La concordia è il presupposto della Pentecoste”».
Torniamo all’immagine della porta… Perché l’architrave è la cura della vita interiore? La sua assenza è forse uno dei problemi più diffusi oggi?
«È il punto nevralgico della formazione permanente del clero. La cura della vita interiore passa attraverso la frequentazione della Parola di Dio – bello sarebbe se ciò avvenisse insieme – e il silenzio dell’adorazione eucaristica, che sigilla la celebrazione della Messa. Un prete è tale se sa curare la tensione armonica tra solitudine con Dio e comunione con i fratelli, se non dissipa il tempo riservato al silenzio della preghiera di intercessione. Il Papa, nell’omelia della Messa crismale di quest’anno, ha messo in guardia i preti “da una mondanità virtuale che si apre e si chiude con un semplice click”. Un’insidia, questa, che va curata, perché con i click si moltiplicano i contatti ma non si stabiliscono relazioni. Il rapporto con Dio è il segreto per stabilire relazioni autentiche con i fratelli».
Siamo alla chiave della porta – la “carità pastorale” – indicata come obiettivo strategico. Ma in tutto questo processo come coinvolgere i laici?
«Mi torna in mente un episodio del libro degli Atti. I Dodici, subito dopo la Pentecoste, si rendono conto che trascurano la Parola di Dio e corrono subito ai ripari: scelgono “sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito Santo e di sapienza” che si prendano cura del servizio alle mense, affinché essi possano dedicarsi “alla preghiera e al servizio della Parola”. Coinvolgere tutto il popolo di Dio nell’opera missionaria della conversione pastorale, oltre a favorire il cammino sinodale, aiuta i ministri ordinati a superare non solo l’asma procurata dall’attivismo, ma anche l’opinione – implicita e inconfessata, o addirittura inconscia – che i fedeli siano “dipendenti” o “clienti” del clero».
La “carità pastorale” della formazione è dunque via indispensabile per una Chiesa che sia veramente “in uscita”…
«Per usare un’immagine si potrebbe dire che è necessario passare dalla pastorale del campanile a quella del campanello, senza rinunciare al suono delle campane. E tuttavia, saremo capaci di suonare il campanello delle case, se sapremo sostare in ginocchio ai piedi dell’altare. La cura della vita interiore è la prima attività pastorale, la più importante, quella che consente ai ministri ordinati di scoprire la loro identità di “servi premurosi del popolo di Dio”, instancabili nel dono di sé, lieti e accoglienti verso tutti».