Certi cognomi (De Filippo, De Francesco, Di Giacomo, De Matteo…) lo rivelano ancora: il nome del padre è stato, per secoli, l’indicatore dell’identità del figlio. Oppure nei piccoli paesi come il mio, quando due o tre cognomi ricoprivano l’intera popolazione, era normale venire identificati con il nome del padre: “Scola del Carlo”.
Oggi ci sono cliniche che forniscono spermatozoi o ovuli, in molti casi rigorosamente anonimi, a coppie sterili, variamente assortite.
Accade.
Di chi sono i figli che ne nasceranno? A qualche giorno di distanza dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha praticamente aperto, anche nel nostro Paese, la possibilità della fecondazione eterologa, un drammatico fatto di cronaca ha portato in primo piano e messo sotto gli occhi di tutti questa domanda, rendendola bruciante spunto di dibattito.
Per fare chiarezza occorre, a mio giudizio, partire un po’ più da lontano, dalla cosiddetta “rivoluzione sessuale” degli anni Sessanta, quando mediante la contraccezione chimica è diventato tecnicamente possibile separare l’atto coniugale dalla procreazione. Più tardi poi, con i metodi di fecondazione assistita, tale separazione si è ulteriormente allargata, introducendo, nei fatti, l’incertezza circa il legame paterno-filiale.
I passi da gigante compiuti dalle tecno-scienze sono perfino riusciti a smentire la famosa sentenza latina: mater semper certa. E i giornali degli scorsi giorni, commentando il doloroso scambio di embrioni avvenuto a Roma, hanno continuamente rilanciato, in diverse varianti, lo stesso interrogativo: legame affettivo o legame biologico? Che cosa conta di più?
L’entusiasmo per gli strabilianti traguardi conseguiti negli ultimi decenni dal progresso scientifico ha dato vita a quello che qualcuno ha genialmente definito l’imperativo tecnologico: “Se si può fare, si deve fare”. Un’ingiunzione che sta rapidamente soppiantando ogni imperativo etico e diventando costume.
Tuttavia, ancor prima che sulle decisive questioni etiche messe in campo dalla fecondazione eterologa, occorre riflettere su una capitale questione antropologica: ciò che si ottiene è proporzionato alla verità e alla dignità dell’uomo?
C’è il rischio che rincorrendo la realizzazione del sacrosanto desiderio di un figlio, si perda per strada la consapevolezza che il figlio è un dono e non il prodotto di un processo.
Un dato fondamentale della comune esperienza umana implica che il figlio sia concepito nell’inscindibile unità di spirito e di corpo mediante l’atto di amore coniugale. Se il figlio non è più “ricevuto”, ma “prodotto”, è inevitabile che, come in ogni processo di produzione, prima o poi venga posta la domanda circa il “proprietario”. E le forme di questo inquietante e sempre doloroso interrogativo sono destinate a moltiplicarsi.
C’è poi un altro dato che il più delle volte viene silenziato. Le più rigorose analisi del profondo ci dicono che la vita prende forma nei corpi istituendo una relazione originaria tra la madre e il concepito, relazione determinante per lo sviluppo affettivo e la salute psichica del bambino. Di più, se la famiglia, in forza delle due differenze costitutive – tra l’uomo e la donna e tra le generazioni -, è il grembo in cui ogni persona fiorisce e matura, siamo sicuri che una volta scardinata e diversamente “ricostruita”, sarà ancora in grado di assolvere questa sua funzione?
Ma, ancora più a monte, sta la questione radicale del significato dell’essere padri e madri. Il figlio è, fin dal momento del concepimento, un “altro” rispetto ai genitori, un altro con la stessa identica dignità dei genitori. Il concepimento carnale, con tutta la sua portata di “irruzione imprevista”, di surplus di amore nella vita della madre e del padre, non è forse il segno più chiaro di tale irriducibile alterità? Nel loro incontro d’amore, i genitori (lo dice la stessa parola) fanno spazio a questo “altro” perché possa essere generato. Un’apertura che rinvia all’emblema stesso dell’umano: la libertà.
Il figlio, dunque, è sempre e anzitutto un dono. Nulla dovrebbe oscurare questo dato.
È auspicabile che, nei dibattiti pubblici come nella vita degli sposi e delle famiglie, si approfondisca sempre più il diritto del figlio piuttosto che il diritto al figlio.