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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Quaresima

Maria illumina il cammino verso la Croce

La figura della Vergine posta a esempio e paradigma del “genio femminile” nell’omelia dell’Arcivescovo per la IV Via Crucis, nella quale sono stati ricordati anche i martiri contemporanei della fede

di Annamaria BRACCINI

8 Aprile 2014

La memoria dei martiri contemporanei e di chi, in prigionia, vive anche in queste ore la persecuzione per la fede apre, in un richiamo concretissimo a riflettere sulla croce di morte e di resurrezione del Signore, la quarta e ultima Via Crucis del percorso di Quaresima 2014 in Duomo con l’Arcivescovo. «Vogliamo ricordare Frans Van der Lugt, padre gesuita olandese ucciso a Oms, i rapiti padre Giampaolo Marta e Gianantonio Allegri di Vicenza, il canadese sir Gibert Puissier e, attraverso loro, i fratelli e sorelle che, in diverse parti del mondo, sono messi alla prova per la croce di Cristo», dice subito il Cardinale.

In Cattedrale, dove fino a poco prima sono risuonate le maestose note di due preludi ad altrettante Corali di Bach, eseguiti all’organo dal maestro Vianelli, inzia così il percorso dalla XII alla XIV Stazione, dal titolo “Oggi sarai nel Paradiso”, tra preghiera, ascolto della Parola dal capitolo 23 del Vangelo di Luca e delle testimonianze di San Giovanni Crisostomo, Reiner Maria Rilke e Olivier Clément. Animano la liturgia, specificamente invitati per la serata, le Zone Pastorali V (Monza) e VII (Sesto San Giovanni), accompagnati dai loro Vicari episcopali, Garascia e Cresseri, e gli aderenti alla Legio Mariae, Opus Dei, Agesci, Movimento Apostolico e Legionari di Cristo.

A loro che percorrono l’ultima Stazione seguendo la croce portata dall’Arcivescovo e alle altre migliaia di fedeli in Duomo, si rivolge l’omelia, a partire dall’invocazione – «Santa madre deh voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore» -, che per l’intera Catechesi ha concluso l’itinerario di ogni singola Stazione. «Una supplica perché il nostro cuore si lasci colpire, commuovere, si muova all’unisono con quello degli altri di fronte al grande evento di cui si fa qui memoria. Almeno nel cuore devono essere impresse le piaghe di Gesù perché non si può stare davanti allo Spettacolo della Croce con smemoratezza o rimanendo fermi alla superficie di un gesto dal sapore solo estetico. La nostra partecipazione sia vera nella liturgia, che altro non è se non il riproporsi di quei fatti, di quell’uomo sfigurato sulla croce per noi».

Dunque, un invito ad aprirsi al Crocifisso «già segnato dalla gloria in nostro favore», nello stesso spirito che fu del buon ladrone, «la figura della speranza cristiana, cioè dell’attesa certa di un bene futuro», del quale mai come oggi la abbiamo bisogno. «Che ne è del Regno di cui spesso ci dimentichiamo e che, invece, è la condizione di compimento di ogni desiderio di bene per la nostra vita e per quella di tutta la famiglia umana?», sottolinea il Cardinale.

E se la risposta di Cristo al buon ladrone è impressionante – «oggi con me sarai nel Paradiso» -, sta a noi conoscere e riconoscere ogni giorno la forza di questo amore, «un amore non genericamente inteso, ma autentico, profondo, generato dall’essere in relazione». Quello che «Gesù non cede anche nel momento più buio dell’umana esistenza, con il corpo straziato dalle sofferenze più atroci e il cuore pieno di angoscia». L’amore che convince il centurione – «anche noi come lui dovremmo batterci il petto» – e tutta la folla. Quello stesso di Giuseppe di Arimatea, ricordato nella XIII Stazione. «Quest’uomo si chiama come lo sposo di Maria e, come lui, è giusto, vivendo con verità le tre relazioni costitutive: con Dio, con gli altri e con se stesso. I rapporti per cui l’uomo è tale», anche, e, forse, soprattutto, se si è uomini di potere come Giuseppe, membro del Sinedrio. Nota l’Arcivescovo: «Non è vero che il potere è sempre iniquo. Non lo è se accetta di sottomettersi alla verità e la afferma, a viso aperto, diventando servizio, condizione di edificazione di Chiesa e di costruzione della società».

Ma più di ogni altra, a illuminare il cammino, è la figura di Maria «bellissima e struggente nella Pietà riprodotta centinaia di volte dall’arte di tutti i secoli», il «suo grembo, in ideale continuità con la Croce, che si fa altare, dove la Vittima immolata innocente per noi viene offerta per la salvezza di tutti gli uomini».  Il pensiero, attraverso Lei, è anche, o meglio ancora, per l’oggi: «Come non pensare alle tante madri, dalle prime dei Santi Innocenti fino a quelle di Plaza de Mayo e a quelle delle vittime della violenza che non cessa di insanguinare il mondo». Ognuna di loro, pare suggerire l’Arcivescovo, ripropone e rende presente questa Pietà elargita che salva il mondo». Maria donna a pieno titolo, per eccellenza, esempio e paradigma di quel “genio femminile” che si fa evidente nelle donne che piangono il Signore.

Qui la domanda del Cardinale si fa stringente, in chiaro riferimento alla situazione attuale. «Perché temere di usare il termine “genio femminile” – secondo la bella definizione di Giovanni Paolo II -, perché vedere un diminutivo in questo, perché dubitare che non esalti la dignità di ogni donna che ha un ruolo decisivo nel prendersi cura della vita, Perché voler annullare la differenza tra uomo e donna, che viene prima di ogni relazione?», si chiede.

Non a caso, le donne che, in tutte le culture, presiedono alla nascita e alla morte sono coloro che preparano, per il Signore nel sepolcro, gli oli profumati: «Un gesto amoroso tanto commovente quanto struggente, preservare il più a lungo possibile il corpo, ma destinato a mancare il suo scopo perché non può fermare la morte. Un gesto che testimonia l’incoercibile bisogno di eternità che dimora da sempre nel cuore dell’uomo». Speranza che, come cristiani, si fa certezza di immortalità dell’anima, ma anche della carne, «caposaldo della nostra fede», come ricorda Tertulliano.

Per questo, nulla di più falso delle tesi, da Nietzsche «all’individualismo libertino e libertario che strumentalizza il corpo dell’altro al proprio piacere», secondo cui il cristianesimo disprezza, condanna e umilia il corpo. Contro un pensiero improntato a una visione dualistica, «è proprio totalità unificata di anima e di corpo, nell’irriducibilità della persona a qualsiasi progetto delle tecno-scienze, che nasce una radicale valorizzazione del corpo stesso», scandisce l’Arcivescovo.

Infine, dopo l’invito a devolvere l’equivalente di un pasto al Fondo Famiglia-Lavoro e ai progetti di fraternità proposti da Caritas Ambrosiana e dall’Ufficio Missionario, un ultimo auspicio, prima dell’uscita in silenzio dalla Cattedrale: «Preparandoci a entrare nella Settimana santa, cerchiamo di trattenere il cammino che abbiamo percorso queste quattro settimane, perché il riconoscimento e il dolore del nostro peccato abbracciato dal Crocifisso risorto ci renda liberi davvero».

«Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me»

Le braccia sono aperte, come quando accolse l’amico Lazzaro risvegliato dalla morte. Le braccia sono aperte, come nell’ultima cena, quando prese e offrì ai discepoli il pane e il vino. Le braccia sono aperte, ma non più inchiodate al legno della Croce. Perché è un Gesù già nella gloria, quello che appare ai nostri occhi nella grandiosa scultura di don Marco Melzi, scelta come «icona» del quarto e ultimo incontro del cammino quaresimale, guidato dall’Arcivescovo nel Duomo di Milano. «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me», dice il Signore. E così lo rappresenta il sacerdote-artista della Scuola Beato Angelico, recentemente scomparso alla veneranda età di 94 anni. Che aveva realizzato quest’opera per la cappella delle suore domenicane del Santo Rosario, a Melegnano. Scavando l’imponente, ma gentile figura del Salvatore in un unico blocco di legno. Comprese quelle stesse braccia, protese verso di noi. Luca Frigerio