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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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Testimonianza

Lavorare con e per i giovani
è una via di felicità

Un educatore riflette sulla sua professione, nella quale si realizza aiutando altri a realizzarsi. Un “vaccino” contro il pessimismo

di Simone CISLAGHI Docente e Responsabile educativo Collegio San Carlo Milano

18 Gennaio 2015

La felicità è il segno della realizzazione dell’uomo; chi è realizzato è felice, chi è felice è realizzato. Cosa significa essere realizzati? È arduo rispondere a questa domanda, ma la saggezza evangelica ci aiuta: essere realizzati vuol dire essere compiuti. Difficile per un uomo compiere un tale proposito, assolutamente impossibile e illusorio pensare di realizzarlo da soli… Bisogna dirlo chiaramente: quella del self made man è una sirena ingannatrice. Siamo tutti debitori a chi ci sta intorno, siamo tutti costantemente debitori a donne e uomini seri e solidi che la Provvidenza ha messo sulla nostra strada e dai quali abbiamo potuto apprendere. Ogni giorno, poi, specialmente nel campo del lavoro, è sovente grazie all’insostituibile contributo degli altri – che ci supportano e ci sopportano – che possiamo perseguire gli scopi che le nostre attività ci pongono.

Come si realizza la felicità nel lavoro? Il lavoro è un segmento importante della vita; io faccio l’insegnante, auguro a tutti i miei allievi di avere la fortuna (in parte dipendente anche dalle nostre scelte) di fare un lavoro che soddisfi, che contribuisca a dare senso alla fatica che comporta e che realizzi scopi alti, cioè significativi. È bello alzarsi la mattina sapendo che una parte importante della giornata sarà impegnata in un’attività che siamo lieti di compiere e nel cui senso crediamo.

Molto si dovrebbe riflettere quando si prendono decisioni che orientano gli studi o, più avanti, la professione. L’uomo non si riduce mai a ciò che fa, ma è pur vero che ciò che facciamo influenza il nostro modo di essere; il che significa, a sua volta, che il modo con cui facciamo quel che facciamo, dipende da quel che siamo. Di questo circolo dobbiamo essere consapevoli fin da giovani e dobbiamo tenere conto quando ci chiediamo: a cosa sono vocato?

Mi permetto di approfondire il discorso restando su un terreno a me familiare, cioè quello della mia esperienza personale. Ho la fortuna di lavorare come insegnante di filosofia, storia e religione, da ormai quattordici anni, nei licei del Collegio arcivescovile San Carlo, di Milano. Questo lavoro contribuisce alla mia felicità personale? La risposta è assolutamente sì. I motivi sono presto detti.

Anzitutto lavorare come insegnante mi permette di vivere, con gli studenti, ma anche con i loro genitori e con i colleghi, una relazione bella, piena, viva, naturalmente anche faticosa – solo chi non fa nulla non fa fatica – e tale rete di relazioni è strutturata e rilanciata continuamente in vista di un obiettivo grande e significativo: contribuire all’educazione e alla maturazione dei cittadini di domani. Inoltre questo lavoro contribuisce alla mia felicità perché mi mette a contatto con un mistero straordinario ed entusiasmante: il mistero dell’essere umano, della sua natura e della sua sete di autenticità, così viva nei giovani.

Ancora, questo lavoro mi apre alla possibilità eccezionale di provare ad accompagnare i ragazzi alla scoperta di sé e dei propri desideri, di incontrarli nel duro e impareggiabile lavoro di conquistare una personalità solida e aperta; opera tanto urgente e tanto difficile in una società sempre più liquida e poco popolata di punti di riferimento significativi, di esempi che parlino semplicemente tramite le proprie azioni e la coerenza della propria vita. Infine, chi lavora con i giovani e per i giovani, a me pare sia vaccinato contro le tentazioni del pessimismo, perché ogni giorno egli può imparare dalla purezza, dall’onestà, dalla bellezza interiore che tanti giovani custodiscono e che noi adulti a volte non sappiamo ascoltare. Mi piace aggiungere anche che nel cuore di un cristiano non c’è spazio per il pessimismo, anche di fronte alle inevitabili difficoltà e sconfitte che la vita comporta.

Mi ricordo con piacere, in chiusura, una frase del grande Teilhard de Chardin: «Il futuro appartiene a coloro che trasmettono alla generazione che viene ragioni per sperare»; ebbene, lavorare su un progetto simile – davanti al quale siamo tutti, inevitabilmente limitati e parziali – aiuta a chiudere le porte all’infelicità.