I figli degli immigrati cinesi stringono rapporti con la madrepatria. Molti tornano, a causa della crisi che rende l’Italia sempre meno appetibile rispetto al drago asiatico. Molti altri, pur rimanendo, mettono a frutto, i vantaggi della loro doppia identità. È ciò che emerge dall’inchiesta del giornale di strada Scarp de’ tenis, pubblicata nel numero del novembre scorso.
In particolare nel servizio dal titolo «Salmoni e surfisti, figli di due mondi», Francesco Chiavarini intervista alcuni giovani, figli degli immigrati cinesi, che cominciano a pensare di tornare nella patria dei loro genitori. Certo, la ritirata non è ancora suonata. Né, al momento, si vede montare un’ondata di ritorno tra i flussi migratori, come dimostra l’aumento della popolazione nelle principali chinatown nostrane. Tuttavia, soprattutto le seconde generazioni, nate o cresciute in Italia, sanno che la Cina avrà un peso maggiore non solo nei destini del pianeta, ma anche nel loro personalissimo futuro. E così c’è chi vola a Pechino o a Shanghai. Con l’intenzione di trasferirvisi definitivamente. Oppure con l’obiettivo di studiare lingua, legislazione e mercato del «Paese di mezzo», e utilizzare queste conoscenze come arma vincente nella competizione con i coetanei, in Italia o in occidente.
Più che salmoni che risalgono le correnti migratorie, «questi ragazzi sono veri cittadini globali e transnazionali», osserva Giorgio Del Zanna, presidente milanese della Comunità di Sant’Egidio, da vent’anni presente nel quartiere di via Paolo Sarpi, a Milano, dove cresce e prospera una delle più antiche e radicate comunità cinesi d’Italia. Dalle migliori università milanesi, Bocconi e Politecnico, sono usciti in questi anni i primi giovani cinesi arrivati con le loro famiglie negli anni Novanta.
Hu Liqin, 30 anni, ha vissuto la sua prima infanzia a Parigi, dove il padre è stato assunto da un connazionale come cuoco in un ristorante. Poi si è trasferita in Italia con la famiglia. A Milano ha frequentato le elementari, le medie, le superiori, e si è laureata. Da poco ha aperto nella centralissima via Alessandro Volta un’enoteca. Come suggerisce il nome, Huva, il suo elegante locale propone alla clientela di professionisti della zona un menu italiano e una selezione di vini di degustazione. La sorella Hu (il nome è identico, ma cambia la pronuncia, sebbene nella traslitterazione non ci sia modo di indicarlo) sta invece avviando un’impresa commerciale in Cina per l’importazione di prodotti eno-gastronomici rigorosamente italiani. «Quando ce ne siamo andate il nostro paese, Wen Chen, nella provincia dello Zhejiang, era poco più di un villaggio con le strade di fango, oggi è una città grande come Milano – racconta la giovane -. Chi è rimasto a casa e in questi anni si è arricchito oggi va matto per qualsiasi cosa abbia il marchio Italia. Una bottiglia di Chianti o di Barolo la vendi al triplo del prezzo a cui l’acquisti qui…». E così le sorelle Hu lavoreranno probabilmente in tandem, una proponendo l’eccellenza italiana ai milanesi, l’altra ai cinesi.
Ma la globalizzazione premia anche i cinesi che decidono di restare in Italia. Xiaomin Zhang, 29 anni, viene da Shanghai ma è cresciuta e ha studiato a Milano. Oggi cura i rapporti con gli investitori internazionali interessati ai mercati dell’estremo oriente dall’«asian desk» di una importante agenzia di comunicazione con sede nel capoluogo lombardo. «So bene che per i miei coetanei italiani è dura trovare lavoro, invece io non ho avuto alcuna difficoltà a inserirmi. Certamente le mie origini cinesi mi hanno favorito. Quando mi chiedono se mi sento più italiana che cinese, rispondo che sono sia l’uno che l’altro. Non credo di avere un’identità a metà, ma un’identità doppia».