«Il Concilio è il nostro presente e il nostro futuro. È la chiamata a rinnovare il nostro patto di fedeltà alla Chiesa e a dare risposte alle aspettative di questo nostro tempo, carico di drammi e pur fecondo». Così il presidente nazionale dell’Azione Cattolica, Franco Miano, ha concluso ieri a Roma il convegno nazionale “Legami di vita buona. Azione Cattolica, Chiesa locale e Chiesa universale”, che dal 21 al 23 settembre ha riunito oltre 350 tra presidenti e assistenti unitari diocesani e regionali di Ac. Con lo sguardo al nuovo anno associativo, che s’inserisce e si orienta nel cammino tracciato dalla coincidenza di tre grandi eventi – i 50 anni dall’apertura del Concilio, l’inizio dell’Anno della fede e l’imminente inaugurazione del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione -, Miano ha rinnovato la “promessa” dei laici di Ac di «costruire legami di vita buona con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, nel cammino ordinario compiuto da ciascuno di noi nelle diocesi e nelle parrocchie».
Una fede intelligente
Ogni fondamento di “vita buona”, ha spiegato inaugurando i lavori mons. Domenico Sigalini,assistente generale dell’Azione Cattolica e vescovo di Palestrina,presuppone una «fede intelligente», poiché «una fede senza intelligenza è un insulto a noi stessi e allo stesso Signore che non vuole automi o persone compiacenti», bensì «persone vere, intere, diritte nella loro dignità; non vuole atteggiamenti servili, compromissori». Nella sua relazione di apertura, “I laici e il Concilio”, il monaco camaldolese Franco Mosconi ha offerto all’uditorio un «percorso conciliare» basato su tre direttrici «da riscoprire». A partire dalla speranza, ossia l’avere fisso «un orizzonte escatologico», per arrivare alla santità, «termine ormai relegato tra gli incensi», ma che «significa costruire la propria maturità umana come Dio la sogna, guardando il Figlio». Su di esse si erge come «stella polare» la «Parola di Dio». Di qui la domanda: «Cosa ne abbiamo fatto della Parola a mezzo secolo dalla Dei Verbum».
«Questo arco di tempo – che per la Bibbia è il segno di un’intera generazione – quanto è stato inquietato e trasformato dalla Parola?». La Parola divina «è come un mare in cui ci si deve immergere»; invece, ha concluso Mosconi, «spessonon incide ferite nella placida superficialità dei nostri giorni».
Seminatori della Parola
Nell’omelia della celebrazione eucaristica presieduta il 22 settembre, mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, ha ricordato che «dopo Gesù, ognuno di noi è seminatore della Parola di Dio», e ciò comporta anzitutto «la responsabilità a non essere seminatori qualunque». «Non ci siimprovvisa evangelizzatori, come non ci si improvvisa buoni seminatori: occorre formarsi a questo compito». «Il buon seminatore – ha ammonito il presule – non è colui che resta immobile. Come Gesù, è in continuo andare incontro all’altro. Dunque, non è più tempo di rimanere chiusi nelle nostre parrocchie. Bisogna uscire e andare lì dove l’uomo vive. Il che non vuol dire andare in Paesi lontani, ma al di là del nostro pianerottolo, dove vive il nostro vicino. Questa è la nuova evangelizzazione».
«L’unica e indivisibile missione della Chiesa – ha precisato mons. Diego Coletti,vescovo di Como – si articola secondo tre prospettive principali, intimamente connesse tra loro»: «Secolare, profetica e pastorale». La prima consiste nel permeare «dello spirito evangelico la vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti “secolari” (famiglia, lavoro, economia, cultura, politica, scienza…)”. La prospettiva “profetica” si esplica nel manifestare «in grado straordinario, nel proprio stile di vita, le esigenze radicali della sequela di Gesù, indicate nel Vangelo». «La prospettiva “pastorale” è, infine, il modo di vivere ed esprimere l’unica e indivisibile missione della Chiesa assumendo, con la forza dello Spirito Santo, il compito di dar vita alla comunità cristiana, nutrirla con la Parola e i sacramenti, coordinarne i carismi e i ministeri, curarne i difetti e le malattie, vigilare per diffonderla e custodirla: in una parola, edificare e condurre la comunità in quanto tale».
Testimonianza dalla Romania
Il «profilo delle responsabilità cui è chiamato il laico cristiano nel suo servizio alla comunità» è stato delineato da Anna Maria Basile, presidente diocesana di Andria dal 2005 al 2011. A partire da tre verbi, ha spiegato: «Custodire, tramandare, generare ancora» per «capire meglio il tempo e il luogo in cui viviamo», avere «uno sguardo nuovo», cercare «nel passato le radici del futuro». La storia di un’Ac romena «cresciuta in numeri e impegno, in particolare nel far conoscere il ruolo dei laici nella Chiesa e nella società, considerando che i documenti del Concilio sono stati pubblicati in lingua romena solo dal 1990, dopo la caduta del comunismo, a 35 anni sua dalla chiusura». A raccontarla sono stati la presidente dell’Ac di Iasi, Adriana Ianus, l’assistente don Felix Roca, e il vescovo ausiliare mons. Aurel Percã. Un’esperienza di laicato missionario ed evangelizzatore, «impegnato nell’educazione alla fede e nell’azione di carità» e «particolarmente attento ai temi della famiglia».