Non è esagerato affermare che Lumen Fidei, la prima enciclica di Papa Francesco appartenga più di ogni altra al ministero del Successore di Pietro che da sempre è chiamato a confermare i fratelli «in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo» (n.7). Il compito affidato da Cristo al suo Vicario non è mai stato svolto in modo generico o asettico, ma tenendo conto delle sfide del suo tempo.
Fin dalle prime righe dell’enciclica si capisce quale è l’orizzonte culturale nel quale Papa Francesco vuole inserirsi. Egli, in continuità con il magistero del suo predecessore Benedetto XVI, aiuta a superare l’idea che la fede sia da considerarsi come un fatto ormai privato. Il discorso su Dio sembra non essere scientifico, al punto da non trovare più cittadinanza nel pensiero e nel vivere sociale. Gli stessi simboli religiosi, non solo quelli cristiani, in nome di una mal intesa laicità non dovrebbero più aver posto nella sfera pubblica. La stessa Chiesa cattolica dovrebbe essere considerata una mera associazione privata. Tutto questo è una novità, rispetto ai secoli precedenti e ha una genesi nel pensiero a noi più vicino. Lo rileva l’enciclica sin dal suo esordio quando registra le obiezioni di tanti nostri contemporanei nei confronti della luce della fede: «Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione» (n.2). Addirittura, è stato pensato che la fede fosse come un’illusione di luce, che impedirebbe «il nostro cammino di uomini liberi verso il domani».
In questo processo, da luce è stata ridotta a oscurità e buio; così dove la ragione non poteva più illuminare, s’invocava la fede come un supplemento di certezza. Se questo, in parte è vero, qualcuno è giunto a non ritenere più necessario, né importante lo spazio “oltre” la ragione; infatti sarebbe vero solo quanto la ragione può conoscere e l’uomo può fare: questo alla fine è ciò che interessa. Così «la fede è stata intesa come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino» (n.3). L’enciclica invita a superare alla radice questa cattiva comprensione della fede che porterebbe a estremizzare: quello che la ragione non giunge a comprendere, lo assicura la fede; quasi a dire che la fede umilierebbe la ragione e spegnerebbe la ricerca dell’uomo. «E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada».
Eppure la fede ha un carattere diverso: essa è capace non solo di aiutare la ragione nel suo faticoso cammino di ricerca, ma anche di illuminare l’intera esistenza dell’uomo. È una luce potente, che non procede da noi stessi, ma viene in definitiva da Dio: «La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita» (n.4). Qui troviamo una trave portante dell’Enciclica: non solo la fede è in armonia con la ragione, come insegnava il pensiero medievale, ma essa possiede un legame costitutivo con l’amore. Infatti, è memoria fondante di quanto Dio ha rivelato e compiuto nel suo Figlio. La morte di Cristo ma anche la sua Risurrezione testimoniano concretamente che Dio nel suo amore è affidabile e opera nella storia.