La possibilità di “visti regolari d’ingresso” anche per gli africani, magari con il controllo delle rispettive ambasciate, potrebbe essere una soluzione al problema delle migrazioni irregolari e al dramma delle morti nel Mediterraneo. Incoraggiando, allo stesso tempo, le piccole iniziative imprenditoriali nei Paesi africani. A creare cioè «un paradiso dove si trovano e non andare a cercare un paradiso altrove». Sono le due proposte del cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, a margine di un seminario internazionale sullo “sviluppo sostenibile e il futuro del lavoro” che si è concluso a Roma il 5 maggio. Erano presenti rappresentanti delle Chiese, dei movimenti, dei sindacati e delle organizzazioni internazionali. Il tema del lavoro e dello sviluppo non può non intrecciarsi con quello delle migrazioni.
Perché questa attenzione speciale del Vaticano sul tema del lavoro?
Con il pontificato di papa Francesco sono state individuate due fragilità: l’ambiente e i poveri. Ma con tutto ciò che sta succedendo io aggiungerei anche il lavoro. Perché c’è troppa disoccupazione e chi ha già un lavoro ha paura di perderlo e vive nell’insicurezza, nell’instabilità, nell’incertezza. In questo Anno della misericordia abbiamo deciso di prestare attenzione a qualcosa che ci preoccupa: la fragilità del lavoro umano. Tutti i partecipanti hanno accettato l’impegno di continuare il dialogo nei territori. È lì che bisogna affrontare la sfida. Finora abbiamo sempre lavorato con un paradigma: si va a scuola, all’università, poi si trova lavoro. Ma ora non è più così. Quindi bisogna cambiare il paradigma e incoraggiare all’imprenditorialità, per essere noi creatori di lavoro. Individuare i bisogni e cercare di rispondere a questi bisogni.
Gli Stati dovrebbero però sostenere di più lo sviluppo della piccola imprenditoria, specialmente tra i giovani…
Certo, con più infrastrutture e meno tasse. Quando alcuni gruppi di studenti inventano qualcosa lo Stato non può chiedere subito le tasse, perché in questo modo uccide l’iniziativa imprenditoriale. Bisogna nutrire questi “giardini” di imprenditoria. Non possiamo sempre dipendere da una impresa che dà lavoro, dobbiamo essere noi creatori di lavoro. I nostri studenti devono avere questo spirito.
La mancanza di lavoro e la povertà che ne consegue è una delle tante cause di partenza dei giovani africani che cercano di raggiungere l’Europa. Che ne pensa?
Quando i Paesi europei erano in Africa come potenza coloniale non hanno formato gli africani. Erano lì solo per sfruttare e arricchirsi. Se avessero investito di più nella formazione, aiutando le persone a reggersi sulle proprie gambe, oggi non fuggirebbero. Questo è il frutto del colonialismo nella sua forma peggiore ed egoista. L’Europa, che dà oggi l’impressione di avere tutto, trascura l’Africa. Forse in passato è stato fatto un errore. Oggi è il tempo di cercare di cambiare le cose.
Invece oggi l’Europa sembra pensare solo a chiudere le frontiere e rimpatriare le persone…
L’Europa adotta tutte queste misure, come i rimpatri e i maggiori controlli alle frontiere. Ma cerchiamo di fare qualcosa per permettere agli africani di restare nei loro Paesi. Non sono d’accordo con i giovani che vengono per motivi economici. Dovrebbero cercare di creare un paradiso dove si trovano e non andare a cercare un paradiso altrove. In Africa si racconta questa storia che è molto significativa. Un agricoltore africano aveva un terreno vicino al fiume. Un giorno gli dicono che ci sono diamanti in Sud Africa. Senza guardare bene nel suo terreno lo vende e va a cercare i diamanti. Il nuovo proprietario, lavorando la terra, trova dei diamanti in forma grezza. Una volta puliti e tagliati diventano gioielli. Allo stesso modo dobbiamo cercare di apprezzare i valori che esistono da noi, in Africa, e non correre sempre dietro qualcosa che esiste altrove.
L’Austria vorrebbe chiudere il Brennero, altri Paesi costruiscono muri e si parla della sospensione di Schengen…
Costruire muri non è una buona cosa perché la famiglia umana ha sempre conosciuto le migrazioni, fin dall’inizio della storia. Noi siamo sulla terra ma siamo anche migranti. Solo con la creazione degli Stati le frontiere si possono chiudere ed aprire. Prima potevamo migrare dove volevamo. Se oggi siamo all’interno delle nazioni dobbiamo riconoscere un fatto basilare: che l’intera umanità è una fraternità. Questo è ciò che deve ispirare tutte le soluzioni. È vero che l’Europa non può assorbire tutta l’Africa; dobbiamo allora aiutare le persone là dove vivono.
Quale potrebbe essere, secondo lei, una soluzione?
Spesso non si ricorda quanto può essere difficile per un africano avere un visto per qualunque Paese europeo. Questa è già una chiusura, anche se non è un muro. Se fosse facile venire in Europa, tanta gente non rischierebbe la vita sui barconi nel Mediterraneo. Verrebbe in Europa, si renderebbe conto della situazione – cioè che non può fare niente – e tornerebbe. Oggi le persone investono tanti soldi per fare il viaggio verso l’Europa in maniera illegale, è ovvio che desiderano costruire qualcosa. Anche se vedono che qui le cose non vanno bene non possono tornare facilmente, perché le risorse di tutta la famiglia sono investite nel viaggio.
In questo modo si combatterebbero anche i trafficanti…
Certo. Se ci fosse la possibilità di avere dei visti regolari non è che tutta l’Africa si trasferirebbe in Europa. I cittadini degli Stati Uniti, ad esempio, possono entrare in Italia facilmente e viceversa. Ma non tutti vanno negli Stati Uniti o in Italia. Quando la via è libera la gente non ha motivo di fare un viaggio così rischioso, perché sa che quando vuole può andare. Se un ghanese vuole andare in Europa dovrebbe poter entrare come un cinese. Non mi sembra che tutti i cinesi che vengono in Italia rimangono qui. Se fosse più facile avere dei visti d’ingresso, non avremmo tutte queste morti nel Mediterraneo. Perché la gente saprebbe che per visitare l’Europa bisogna avere un po’ di soldi, la possibilità di un alloggio. Si può anche chiedere alle rispettive ambasciate di seguire chi parte. Oggi chi fa il “viaggio della speranza” investe tanto per venire in Europa, per cui è difficile che voglia tornare in Africa a mani vuote.