Sul non facile incarico (ma insieme prodigioso dono) rimesso alla Chiesa si sporgono le omelie del Giovedì santo, con le quali il cardinale Dionigi Tettamanzi si rivolge al clero ambrosiano, in quella ragguardevole occasione quale è la Missa Chrismalis e ora con il libro Il dono condiviso (Cittadella Editrice, 252 pagine, euro 16.80).
L’Arcivescovo vi evoca la figura congeniale alla Chiesa, ne ravvisa le linee primarie cosicché si renda attendibile verso ogni uomo. La Chiesa è attendibile quando è fedele «all’impegno preso dalla verità per il mondo», impegno che riconosce come Gesù lo vive. Così la comunità cristiana non rinuncia a farsi vicina all’uomo reale. È il programma, per nulla lirico, capace di aprire vie nuove a chi crede, in conformità alla parola evangelica pronunciata, nella sorpresa generale, da Gesù: «In verità, in verità vi dico che chi crede in me farà anch’egli le opere che faccio io; e ne farà di maggiori» (Gv 14,12). Dio cerca simili discepoli, chi crede pone l’unica propria misura nel Dio generoso (in prima istanza verso lui, «di opere ne farà di maggiori»).
Nella fiducia permessa a chi crede (fiducia comprensibile solo nella fede) il cardinale Tettamanzi scorge la norma fondamentale per la Chiesa. Per sé la Chiesa «si costituisce in relazione alla morfologia culturale e spirituale di un luogo», sono vari i modi di «santificare le stagioni dell’anno, le fasi della vita – dalla nascita all’iniziazione degli adolescenti, alle nozze, alla malattia, alla morte» (Carlo Maria Martini). Paolo VI spiegava come «la Chiesa locale è nell’economia religiosa cattolica il momento iniziale e terminale; è come il frutto rispetto alle radici, all’albero, ai rami: la fase cioè della pienezza spirituale a tutti disponibile», con il consiglio «siate “pietre” viventi di quell’edificio spirituale che poggia su Cristo, la “pietra angolare” dell’unica e indivisibile Chiesa». «La dedizione a questa Chiesa particolare ci fa presbiterio, ci unisce cioè per essere insieme, Vescovo e presbiteri, al servizio dell’edificazione dell’unico corpo di Cristo», è la lezione a cui il cardinale Tettamanzi si rifà.
Diocesi non è una parola del diritto, rinvia all’intenso incarico spirituale chiesto a chi partecipa dell’ordine sacro. Il rispondervi impone la libertà d’iniziativa attiva mediante «la bontà, la sincerità, la fermezza d’animo e la costanza, la continua cura per la giustizia, la gentilezza e tutte le altre virtù che raccomanda l’apostolo Paolo» (Presbiterorum Ordinis). L’Arcivescovo vi sottolinea la carità, «la nostra vocazione si compie nell’esercitare la carità come dono di sé a Dio e ai fratelli». Per sé, se «l’amore deve essere il nostro debito verso chiunque» (Karl Barth), è perché «l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5,5). All’amore divino, già «sparso nei cuori», si corrisponde avvertendo «la carità come dono di sé». La carità permette a chi crede il solerte laborioso confronto con il male, ovunque esso si annidi. Chi crede pone in tutta evidenza come il male non rappresenti mai il fattore conclusivo per l’uomo. La sfida con il male non indulge a equivoci, non la possono sopperire né i perbenismi formali né le false ipocrisie. Di forte rilievo è così il fatto che il cardinale Tettamanzi insista su come la carità sia avverabile solo in chi spera in ragione della fede, in effetti cosa egli crede è come «insieme con il desiderio di sé che è in noi e che è sempre nello stesso tempo desiderio del mondo, il crocifisso ha preso su di sé e ha vinto anche questo essere terribile (l’anonima potenza del mondo), che è paura della morte» (Heinrich Schlier).