Stefano Orfei è primario dell’Unità Operativa di Geriatria all’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo. Qualche anno fa ha maturato la decisione di farsi diacono, un altro modo per spendere la propria vita per il prossimo.
di Stefano Orfei
All’indomani della mia ordinazione a diacono della Chiesa Ambrosiana, entrando in ospedale mi sentii domandare da alcuni colleghi, con un certo sarcasmo: «Quale camice indosserai oggi, quello del medico o quello del diacono?». Ricordo che non diedi risposta, ma abbozzai un sorriso che traduceva un certo imbarazzo, perché anch’io non sapevo cosa replicare: come gestire due compiti così diversi, l’uno rivolto alle “cose del corpo” e l’altro alle “cose dell’anima” dell’uomo?
Devo dire che ormai, dopo quattro anni di ministero, la risposta l’ho trovata. Ma andiamo con ordine: lavoro da trent’anni nell’Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza ed attualmente ricopro il ruolo di primario dell’Unità Operativa di Geriatria all’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo. Il mio è un reparto con 28 posti di degenza per malati acuti ultra settantenni.
Molti sono i problemi che incontro nel lavoro quotidiano e che talvolta mi mettono un po’ in crisi, ad esempio, come far conciliare la necessità di una degenza più breve possibile per poter sfruttare al massimo il sistema di pagamento che la Regione fa all’ospedale con i DRG (Disease Related Groups, quota forfettaria per ogni patologia per una durata prestabilita di giorni di degenza per quella patologia) e le esigenze dell’anziano solo e non più autosufficiente, magari con figli e nipoti che lavorano e hanno difficoltà nella gestione domiciliare?
O come gestire il paziente che viene dimesso in fase demenziale, non più collegato alla realtà del quotidiano, magari con la pensione minima e la necessità di essere collocato, per la sua e l’altrui sicurezza, in una casa di riposo le cui rette si aggirano più o meno tutte attorno ai 2.000 euro mensili? Per non parlare dell’anziano rifiutato dai parenti o di quello che non ha più nessuno o di quello che, ancora mentalmente lucido, di fronte a una situazione di gravità o di solitudine, rifiuta cibo e medicine.
In altre parole, come riuscire a fare bene il tuo lavoro non dimenticando che hai di fronte un uomo fragile perché anziano e malato e non un numero o una malattia? Come inserire il tuo essere diacono in un mondo asettico, spesso senza emozioni, ma che è anche un mondo di sofferenza e di dolore?
Queste domande già da tempo mi frullavano per la mente, ma non riuscivo a trovarvi una risposta. Finalmente il giorno dell’ordinazione il mio parroco, don Giuseppe, mi ha regalato una bellissima icona che narra la parabola del Buon Samaritano; nei giorni successivi, pregando davanti all’icona, ho avuto la risposta: bastava essere come il Buon Samaritano. In quest’ottica sono riuscito a creare un fitto intreccio di relazioni con le parrocchie, con le assistenti sociali dei comuni limitrofi, con la realtà della Caritas, che nella nostra zona gestisce anche un ambulatorio gratuito per i non abbienti e per i cittadini extracomunitari; tutte cose che vanno al di là di quanto statutariamente richiesto dai compiti di un medico ospedaliero.
In ambito decanale, poi, mi è stato dato il compito di seguire la pastorale familiare; il decano di Lissone, sfruttando sia la mia professione di medico che il ministero diaconale, mi ha incaricato di seguire alcune coppie in crisi matrimoniale non essendo opportuno, in quei casi specifici, l’avvio al Consultorio Familiare.
Sono riuscito a mettere insieme le competenze del medico e la capacità di ascolto e di consiglio del diacono, sulla base della Scrittura e del Magistero, ottenendo in tutti i casi buoni risultati, non certo per il mio merito, quanto per le intense preghiere di “illuminazione” che rivolgevo al Padre prima degli incontri con le coppie.
Certo, oggi, se qualcuno mi facesse ancora la domanda iniziale, alla luce di ciò che sto vivendo, saprei come rispondere e senza esitazione: il camice che indosso è uno solo ed è quello del servizio all’uomo.