Non abbiamo un nome, non siamo un movimento. E, ammesso e non concesso che nella vita cristiana ci sia qualcuno che possa fregiarsi di questo titolo, non ci sentiamo “arrivati”. Anzi. Se c’è una consapevolezza che ci accomuna è questa: la fede si impara e si vive giorno per giorno. Sbagliando e interrogandosi, mettendosi in gioco ogni volta. Insieme. Perché «camminando s’apre cammino».
Siamo una dozzina di famiglie di Lecco; veniamo da esperienze ecclesiali diverse (Cl, Equipe Notre Dame, parrocchie; qualcuno ha i figli negli scout, altri li mandano all’oratorio…). Ci troviamo una volta al mese circa, in una delle case, a turno, per meditare su un testo e, partendo da quello, condividere riflessioni ed esperienze. La vita vissuta, insomma. Quella feriale, intendo, quella che spesso rimane fuori dall’orizzonte del nostro modo di vivere la Chiesa, come se solo i grandi raduni o gli eventi col Papa fossero degni di nota.
Tutto è nato, spontaneamente, da un’amicizia: molti tra noi si conoscevano perché avevano i figli nella stessa scuola e, di quando in quando, ci si vedeva per ragionare insieme sull’educazione dei figli. Da lì all’idea di trovarsi con una certa regolarità il passo è stato breve: perché ciascuno di noi ha intuito che quel momento faceva bene a tutti.
È un gruppo di auto-aiuto, allora? In un certo senso sì, ma per altri versi no. Chi ci aiuta a leggere la direzione del cammino è il Vangelo, sono le parole di Papa Francesco, del cardinale Scola. Talvolta, invece, sono testimonianze personali raccolte dai membri del gruppo in circostanze diverse. Un esempio: molto prima che diventasse un libro (Le infradito blu), abbiamo letto insieme e commentato, con commozione, la testimonianza del dottor Felice Achilli, padre di un ragazzo stroncato improvvisamente in un incidente stradale.
Per quanto siamo amici e il clima che si respiri è molto familiare (il che consente anche di “tirar fuori” confidenze che altrove non si avrebbe il coraggio di esporre), può capitare – a me è accaduto – di “andare al gruppo” con qualche fatica o di essere tentati di bigiare. L’ho detto: non siamo i primi della classe. Ma, quando è accaduto, abbiamo percepito di aver perso un’occasione. E quando invece, vincendo la pigrizia o l’alibi del «è stata una settimana impegnativa, ho diritto di vedermi un bel film», al gruppo ci siamo andati – magari con l’entusiasmo sotto i tacchi – è capitato di tornare a casa col cuore palpitante, felici di aver ricevuto un dono inatteso, di aver colto una sfumatura della vita cristiana che mai avevamo immaginato.
Ebbene: per me quel sabato sera che di tanto in tanto ci ritagliamo è l’occasione in cui tornare a prendere coscienza di cosa significa essere responsabili della propria fede e di quella degli altri, a cominciare dalla moglie e dai figli. Sentire, in altre parole, che il Vangelo c’entra con tutta la vita e tutte le vite.
Perciò, se mi dovessero chiedere qual è l’augurio che vorrei fare al nostro gruppo, prenderei a prestito alcune parole di Madeleine Delbrel. Con esse la grande mistica francese del Novecento, «missionaria senza battello», descrive i coetanei grazie ai quali lei, atea, è stata condotta all’incontro con Cristo: «Vivevano la mia stessa vita. Discutevano come facevo io e ballavano come me. E si trovavano molto a loro agio in tutta la sfera del reale. Parlavano di tutto, ma anche di Dio che per loro sembrava indispensabile come l’aria. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo».