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Sirio 09 - 15 dicembre 2024
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La visita

Auschwitz, come un pugno allo stomaco

Arrivi al lager e ti trovi a resistere alla tentazione della tua mente, dove s’insinua il pensiero che no, non può essere vero. Invece lo è...

di Stefania CECCHETTI

4 Luglio 2016

I biglietti aerei sono pronti già da un po’. I bagagli sono quasi fatti. Prima di partire per questo fine settimana a Cracovia manca solo la prenotazione della visita ad Auschwitz. Faccio un giro su Internet, l’offerta è sterminata, ma presto scopro che sulla mia data siamo già al tutto esaurito. D’accordo, è un fine settimana qualunque di maggio, non un periodo di punta… Ma come ho potuto sperare di prenotare solo un paio di giorni prima la visita guidata a un luogo dal 1979 Patrimonio dell’Umanità Unesco, e che nel 2014 ha registrato il record di 1,534 milioni di visitatori?

Per fortuna trovo all’ultimo una visita guidata in inglese: andare a Cracovia senza visitare Auschwitz sarebbe davvero poco significativo. Perché Auschwitz è un posto dove tutti dovrebbero andare almeno una volta nella vita. E non solo perché la tragedia dell’Olocausto non deve cadere nell’oblio, ora che i testimoni diretti stanno morendo a uno a uno, ora che rigurgiti neonazisti scuotono il nostro continente, ora che altre tremende morti di massa si consumano nelle acque del nostro mare. Auschwitz non è solo una narrazione di quanto è successo oltre 70 anni fa, «per non dimenticare». La visita è prima di tutto un’esperienza “di pelle”.

Già, perché una cosa è leggere un libro, guardare un documentario. Un’altra è respirare l’aria che hanno respirato i deportati, calpestare il suolo delle misere baracche che li hanno ospitati, guardare il sole tramontare dietro il filo spinato come devono avere fatto chissà quanti occhi disperati. L’immedesimazione è quasi inevitabile.

Nel campo di Auschwitz I è allestito un museo permanente dove sono visibili migliaia di oggetti personali appartenuti ai deportati. Sono solo una minima parte di quelli effettivamente sequestrati ai prigionieri, che non sapevano quale sorte li aspettasse e dunque erano partiti con molti effetti personali. La prassi era recuperare tutto quanto si poteva e spedire in Germania: gioielli e orologi, ma anche cose di poco valore, occhiali, vestiti, scarpe, valigie, pennelli da barba. Nel vederli accatastati dietro una vetrata, durante la visita al museo, un brivido ti corre lungo la schiena. Non sai perché: ti chiedi se sia la massa (si tratta di mucchi enormi, non di un oggetto isolato in una teca), che ti dà la misura dell’enormità dello sterminio. Ma forse è solo l’associazione di idee: scarpe come quelle che mia figlia lascia sempre in giro; occhiali come i miei che metto sul comodino prima di dormire; valigie col nome sopra come il trolley che ho in albergo. Perché i nostri oggetti personali ci definiscono, sono in un certo senso parte di noi. Privare i prigionieri di quelle cose è stato il primo passo verso l’annientamento della persona.

E poi ci sono i mucchi di capelli, per lo più femminili, lunghi, biondi, avvolti in trecce, ormai più simili alla stoppa che a capelli umani. Questi non sono oggetti, sono parti del corpo: guardarli ti torce lo stomaco. Quando l’Armata Rossa liberò il campo di Auschwitz trovò 7 tonnellate di capelli, racchiusi con ordine in sacchi da 25 chili ciascuno, che i responsabili del lager non erano riusciti a spedire agli stabilimenti in Baviera dove venivano utilizzati per la fabbricazione di tessuti per sartorie. Dall’analisi dei capelli venne accertata la presenza del cianuro di idrogeno, il veleno essenziale del gas zyklon, usato nelle camere di sterminio.

La guida ci racconta inoltre che ai cadaveri venivano strappati i denti d’oro, anche quelli inviati in patria per essere riutilizzati. Penso alla sensazione orribile del dentista che ti lavora in bocca. È spiacevole, anche se l’anestesia ti toglie il dolore. Penso a quella mano che ha fatto la stessa cosa su uno, cento, mille cadaveri.

Ma quello che mi colpisce di più sono i vestitini dei bambini: lisi, con fogge di un’altra epoca, questi non accatastati, ma appesi e in mostra dietro una vetrina. Proprio come quelli che ho notato alla partenza, in aeroporto, in un negozio di abitini “di lusso”. I bambini sono bambini, ma ce ne sono alcuni che nascono per vestire capi firmati, altri che invece sono nati per essere spogliati e mandati alla camera a gas. Di loro non rimane che uno straccetto appeso. Il senso di ingiustizia ti invade come una folata di vento. Per me, mamma, trattenere le lacrime è quasi impossibile.

Quando ci spostiamo al campo di Auschwitz II-Birkenau, è sempre una storia di bambini che mi si scolpisce nel cuore. La guida ci porta alla banchina in fondo al binario che entra direttamente nel campo, costruito per accelerare il procedimento di trasporto, smistamento, gasazione e cremazione. I forni II e III – ciascuno in grado di bruciare 1400 cadaveri al giorno e di cui restano solo i ruderi, perché nel 1944 i nazisti li distrussero per cancellare le tracce dei loro crimini – sono a poche centinaia di metri. C’è ancora uno dei vagoni che trasportava i prigionieri. Potevano affrontare distanze fino a 2500 chilometri, stipati come bestiame, senza mangiare e in condizioni igieniche tremende. Il paragone con i barconi dei nostri giorni viene naturale.

La guida ci racconta di un bambino. Sua madre capisce che sono finiti entrambi nella fila sbagliata, quella che andrà al gas. Allora lo spinge nell’altra fila: non è piccolo, spera possa essere preso per un ragazzino in grado di lavorare. Lui ritorna dalla mamma e lei lo rispinge di là. Così per tre, quattro volte. Alla fine, in lacrime, lui le urla: «Ti odio». Ma le obbedisce e così si salva. Uno dei pochi, perché la sorte dei più piccoli nei campi era quasi sempre segnata. Anni dopo racconterà il peso di quell’ultimo ricordo, delle ultime parole innocentemente cattive dette alla mamma che lo stava salvando.

Ecco, questa cosa dell’ultimo momento passato insieme è sempre straziante, ma in un contesto come Auschwitz è davvero insopportabile, perché sai che la causa di quelle tremende separazioni non è il destino, pur crudele, ma la deliberata ferocia che ha spinto alcuni essere umani a un’opera sistematica di sterminio. Questa è la cosa che più ti porti dentro dopo l’esperienza quasi “sensoriale” della visita: il pensiero che il male trova strade davvero sorprendenti per manifestarsi. Cose che non avresti mai creduto possibili sono successe, le hai viste, ti hanno colpito allo stomaco. Ma, nonostante tutto, ti trovi comunque a resistere alla tentazione della tua mente, dove quasi impercettibilmente si insinua il pensiero che no, non può essere vero. Invece lo è. E cerca di ricordartelo sempre.