Un binomio rovente. Dall’origine. Il movimento originario di Antonio, padre dei monaci, fu di uscire dalla città. Prima, semplicemente stabilendosi ai margini, ma poi – per progressive tappe di allontanamento – la sua divenne una vera e propria fuga. Non la fuga superba del puro, ma la fuga di chi cerca l’altrove dalla città affaccendata su vicoli di auto salvazione. Fuga mai immemore dei suoi fratelli. Fuga altrove: ma l’altrove che il monaco cerca è in ogni caso una dimora.
Così parla in lui il Salmo: «Come un giumento dinanzi a te… il mio bene è stare vicino a Dio, per narrare le sue opere / presso le porte della città». (Sal 73[72],28: Apoftegmi, Nisteroo, 2).
Sta di fatto che tra monastero e città, fin dall’origine del monachesimo cristiano e attraverso le epoche più diverse, il rapporto si è sempre posto in forma dialettica. Uscita e riguardo. Fuga e ritorno nell’ora del dolore. Contestazione e profezia della nuova città – che «scende dal cielo». Ma sempre nella forma di un’inscindibile reciprocità vitale.
Il binomio non è sempre stato coniugato allo stesso modo. Nel Medio Evo. Nella contro riforma. Al maschile e al femminile. Oggi, forse si cercano, si vanno elaborando nuovi, diversi paradigmi. Poiché il deserto è annidato nella città, nei suoi inferi.
Forse – nel contesto dell’indefinibile città della crisi – la dialettica assume contorni imprevisti, che a malapena siamo in grado di intravvedere. Forse la vista riceve luce se ci teniamo in contatto con le origini: le comunità monastiche delle prime generazioni vivevano per molti aspetti una forma di legame al contesto ecclesiale e civile simile a quello attuale. Tra fuga e testimonianza martiriale, confessante: testimonianza dell’umanità nuova, manifestata in Gesù. L’estrema compassione.
All’origine dei monasteri sta quel ritiro cercato da Gesù, di cui dice Marco 1, 45: «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte». Non poteva entrare in città, perché le attese nei suoi confronti lì erano troppo pregiudicate: mancava respiro e cielo per la rivelazione del Figlio amato, dato per tutti. La fuga dalla città non è la fuga dagli uomini, ma da una dimora degli uomini compromessa dalla tradizione di Babele.
I contorni, per molti aspetti oggi sfuggenti, delle mura del monastero e delle porte della città, trovano nitidezza e punto di congiunzione in un solo tratto: il ritorno dell’estrema compassione che Gesù rivela annientandosi nella forma del Servo. Fu questa forma che attrasse e persuase il primo cenobita, Pacomio. Prossimità paradossale.
L’estrema compassione è quella che spinge Gesù in fila tra coloro che chiedono conversione (Mc 1,9), e li raduna ai margini. Là si sentono chiamati monaci e monache, ma là vivono anche tanti altri miseri. L’estrema compassione raccoglie in preghiera. Ripropone il deserto come uscita dalla città, quando essa si fa luogo che serve all’amore di sé e copre con legittimazione ideale la chiusura all’altro. Forse che nuovamente dal deserto nasce la città? È difficile dirlo. Si può sperare.
Un legame dialettico, quello tra monastero e città. I monaci, e tanto più le monache – prive di qualsiasi potere, volendo escludere la seduzione subdola del sacro trattato come spray -, abitano ai margini della città, ma fanno dimora «altrove». Un altrove che sempre si sposta. La loro, è dimora come una tenda: sempre da spostare rispetto ai luoghi della auto salvazione. Additano la nuova città dei legami. Stabili e affidabili. Additano, dimorando in ascolto: nella preghiera anzitutto, a monte di ogni altro raduno. Gemito di intercessione e di lode; nella ricerca di leggere insieme testo sacro e testo della storia, e di una conseguente narrazione intelligente della Sacre Scritture; nella tessitura di legami ospitali. Intercedere – dimorare nel Gemito dello Spirito (Rm 8,26) – cioè stare dinamicamente “in mezzo”, aperti a Colui che parla e -ovunque c’è alito di vita – intesse parabole del Regno: il Regno irresistibilmente, umilmente, viene.
Questo è il terreno di nascita dell’estrema compassione, ove sorge un monastero. Posto fuori delle mura della città, eppure il monastero è un polo costante di richiamo per i cittadini: in principio, e oggi ancora. Nell’ora del martirio diventa luogo dell’ultima vocazione.
Luogo fecondo di osmosi della sete di vita, dell’acqua viva. Come narra l’antico apoftegma: «In città c’è uno che ti somiglia. È di professione medico, dà il superfluo ai bisognosi, e tutto il giorno canta il trisagio degli angeli» (Antonio 24). Il monachesimo delle origini coglieva l’affinità tra il monaco e il cittadino confessante. E di loro faceva, spezzando ogni esclusiva, l’uno per l’altro annuncio di Evangelo. La preghiera, la lettura delle Scritture e la prassi dell’amore sono i punti originari di contatto tra il monaco e cittadino.
Nessuna regola è fissa per la dimora del monaco, se non che il Vangelo si fa guida, e le “piccole regole per cominciare” (Regula monasteriorum, c. 73) ne fanno umile e tenace, stabile memoria. L’insegnamento del monaco – e non sono solo gli apoftegmi del quarto/quinto secolo a testimoniarlo -, non è mai frontale, ma si trasmette attraverso un ritmo e uno stile di vita, koinos bios.
Ma dialettica tra l’altrove e la presenza, tra la fedeltà ai rapporti e il necessario distacco, non può mai essere fissata in una serie di regole di vita; è affidata allo Spirito. La prossimità deve sempre da capo accadere, e per accadere ha da essere invocata in preghiera; non è mai una proprietà scontata.
Ai margini della città, stabile soglia all’ospite, il monastero custodisce, per restituirla istante per istante, l’anima della città.Sono sempre responsabile, ogni giorno, per e presso coloro che la grande città rende stranieri – anzitutto responsabile di “inter-cedere” – amore fino alla fine, cercando le orme del Maestro (Gv 13,1).