Don Vittorio Ferrari in Perù dal 2005 ora dedica molto tempo alla preghiera e all’ascolto della gente.
di Vittorio Ferrari
Sono diventato prete nel 1965. Eravamo ottanta compagni, di tutti i tipi: giocavamo, discutevamo, litigavamo, ridevamo, sognavamo, speravamo in un mondo migliore. Erano gli anni del Concilio, bellissimi, ricchi d’entusiasmo. Avevamo una battuta: «Il Concilio ha potuto finire perché c’eravamo noi a viverlo…». La Chiesa sembrava ricuperare la freschezza della Pentecoste: accostare il mondo con simpatia, godere e soffrire con tutti, dare Cristo! Lavorare per il mondo sembrava naturale. Ricordo che dicevo: «Mi pare giusto andare anche lontano, in missione…». Il saggio padre spirituale Zanoni mi rispondeva: «Ci andrai con la diocesi…». Maturava già l’idea che le diocesi dovessero aiutare, quasi sembrava poco quanto chiedeva la Fidei Donum di Pio XII.
Poi iniziarono gli anni infuocati della contestazione: era come una febbre, far di più per i poveri, essere vicini a tutti, specialmente agli ultimi… Avevo accantonato l’idea missionaria anche per motivi personali: mia madre era sola e viveva con me. Poi finii alla periferia di Milano: Fizzonasco, Pieve, Rozzano. Terre missionarie, mi dicevano… Poi mi mandarono cappellano in un ospedale a Sesto San Giovanni, per undici anni: ci andai umiliato e offeso, mi pareva un castigo… Ma passai anni bellissimi. L’obbedienza potrebbe essere una virtù.
Dopo malati, dolore e sofferenze, mi fu permesso di andare a Huacho, in Perù, per sei anni, durante i due mesi estivi: un lavaggio del cervello, come per cambiare aria… Così conobbi padre José Noli, mitica figura di donazione, fede, amore ai poveri e ascesi totale: lavorava sempre, non mangiava mai, sorrideva e incoraggiava tutti. Mi disse di amare il Perù e di affidarmi a Dio: la mia vocazione si consolidò così.
Successivamente conobbi padre Garlappi e padre Borsani, altri due missionari in servizio a Huacho: Garlappi seguiva la parrocchia della cittadina, il Seminario e la pastorale giovanile della diocesi; Borsani era isolato sulle montagne, ma quando scendeva a valle sapeva coinvolgere in quello che faceva nei villaggi con i contadini, i bimbi, i poveri, gli anziani.
Così, nel 2004, quando andai in Perù per la sesta volta, Borsani mi disse: «Ma vieni qui…». Un mese dopo l’ospedale mi parlò di pensionamento e io chiesi al vescovo di andare a Huacho. Nel settembre del 2005 ero in Perù e da allora lavoro in una parrocchia a metà strada fra le Ande e il mare: un clima stupendo (c’è sempre il sole), tanti piccoli villaggi, una parrocchia unica dove don Borsani è affiancato dal giovane don Munafò…
Che facciamo? Cerchiamo di costruire la comunità cristiana attorno alla Parola di Dio, cerchiamo di fare dell’Eucaristia domenicale il culmine delle nostre attività, seguiamo i ragazzi con la catechesi, compito nel quale le suore di Agrate sono bravissime. Di fronte alla povertà devi promuovere le coscienze: per questo la parrocchia ha creato un servizio di assistenza sociale, una Defensoria del pueblo per i diritti umani. Un lavoro enorme, che valorizza i laici.
Io – un po’ per l’età e un po’ per una mia scelta maturata negli anni – punto sulla preghiera (il missionario dev’essere un po’ monaco) e poi cerco di avvicinare tutti, uno per uno, famiglia per famiglia. La confessione intesa come attenzione personale, per indicare a ciascuno che Dio lo vuole e lo può rinnovare. E attenzione vuol dire ascolto – anche se vorremmo consigliare più che ascoltare -, andando nelle case e mostrando quell’amore che è prolungamento dell’amore di Dio…
Nella diocesi di Huacho c’è un vescovo italiano, monsignor Antonio Sanarsiero. Ci sono preti e suore che formano il tessuto diocesano, ma è doveroso che si faccia comunione, che sia l’intera comunità a evangelizzare, che siano i laici i veri protagonisti. Questa è la sfida per una Chiesa che affronti il futuro con gioia.
Gesù è la salvezza e per questo occorre lavorare, pregare, inventare, studiare, confrontarsi, vivere… In Perù annunciare questo ai giovani è compito primario, ma difficile, perché mancano gli elementi per discutere e per farti capire. Abbiamo bisogno di una nuova Pentecoste. Concludo salutando i confratelli di Milano. Qui sono lieto, mi sono forse ringiovanito, ma stimo, amo, apprezzo e incoraggio il vostro lavoro quotidiano e silenzioso per annunciare il Signore e rallegrare chi soffre.