Per una famiglia che vive in una grande città come Milano, aprirsi all’esterno, intracciare relazioni, vivere percorsi di fede può essere molto difficile, soprattutto se ci sono bimbi piccoli da crescere.
di Stefania Cecchetti
Ripensando a quando – con il pancione – immaginavo a come sarebbero cambiate le cose una volta diventata mamma, sorrido nel considerare la gran quantità di ingenue preoccupazioni che avevo per la testa: le notti perse, la vita sociale ridotta a zero, la difficoltà di conciliare famiglia e lavoro. Tutti ti dicono: “Un bambino ti cambia la vita”, in realtà ben presto ti accorgi che non ti cambia solo la vita, ma la “visione” della vita.
Scopri allora che le notti perse sono niente in confronto all’ansia continua, che non ti molla mai, sulla salute del tuo piccolo, fisica e psicologica. Che sì, gli amici non li vedi più come prima, ma che nemmeno quando riesci a trovare dieci minuti per fare una passeggiata riesci a “staccare” del tutto con la testa. Che al lavoro, bene o male, ci ritorni, ma anche lì nulla è più come prima, perché ora hai anche un altro lavoro, ben più importante e con orari proibitivi: 0-24, senza pausa pranzo.
Piccole rivoluzioni quotidiane – peraltro ampiamente ripagate dal primo sorriso, dalla prima parola, da un abbraccio di manine piccole piccole – che interessano un piccolo universo, quello familiare. Perché è vero, è la vita della mamma, quella che più viene toccata da questi cambiamenti, ma anche i papà di oggi, pannolini alla mano, non scherzano certo.
Allora la riflessione si allarga. Cambia la vita di due persone, cambia la vita di quella famiglia, cambia la visione della vita di quella famiglia. E intorno? Nei casi più fortunati una squadra di nonni disponibili e qualche amico che ti dà una mano, fosse solo il sostegno di una chiacchierata, quando ne hai bisogno. Per il resto, poco più: il pediatra, il consultorio di zona, per alcuni la parrocchia.
Ed eccoci arrivati alle altre “ingenuità”, o forse dovrei dire idealità, quelle che avevo per la testa ancora prima di sposarmi. Il desiderio di costruire un famiglia che avesse qualcosa da dire anche agli altri: alla parrocchia, al quartiere, alla cerchia allargata delle conoscenze. Dire famiglia cristiana forse è troppo anche per i miei ideali di allora, ma insomma si voleva lavorare in quella direzione.
Propositi buoni che purtroppo si infrangono con gli spazi e i ritmi di una città che – diciamolo – sono un po’ crudeli, per tutti ma ancora di più per una famiglia con bambini piccoli. Il lavoro che si mangia quasi tutta la giornata; le code in macchina o sui mezzi, anche per percorrere brevi tragitti; la fila – perenne – alla cassa del supermercato; la mancanza cronica di spazi non dico verdi, ma almeno decenti per passeggiare con una carrozzina. E poi le mille cose da fare in una casa, che costringono a fare i salti mortali per trovare il tempo per una cena con amici, un cinema, un fine settimana via dal caldo e dal rumore di Milano. Tutte cose in qualche modo necessarie, ma che alla fine ti lasciano anche con il desiderio di qualcosa di più.
Uscire dal cerchio e incontrarsi non è facile. Il territorio praticamente non offre opportunità di aggregazione che non siano in qualche modo commercializzate. Le parrocchie fanno proposte certamente valide, ma che in qualche caso danno l’impressione di non tenere conto di queste difficoltà e di questi ritmi. Un po’ egocentricamente penso: se non ce la faccio io, che sono cresciuta in parrocchia assorbendone i valori e i linguaggi, come pensiamo di poter arrivare alle famiglie che combattono queste piccole battaglie quotidiane e che hanno la testa da un’altra parte?
Pensieri scoraggianti. Ma altre volte, invece, penso che basti poco. Non arriviamo alle relazioni, fermiamoci ai luoghi: nel mio oratorio per anni non c’è stato nemmeno un angolo con uno scivolo per i bambini più piccoli, solo l’immensa gettata di cemento dei campi di basket e calcio (e cara grazia che ci sono almeno quelli). Da qualche anno c’è uno scivolo: è un niente, ma può diventare un punto di riferimento per le tante mamme con figli piccoli che si aggirano per il quartiere, orfane di un parchetto decente dove incontrarsi tra loro e far giocare i propri figli. Non ci voleva tanto, no? Quanto potrà costare uno scivolo? E se magari si pensasse a piantarci intorno un paio di alberelli? E se si cominciasse a farlo sapere in giro, che c’è questo spazio?
Non guardiamo troppo lontano. Prima degli incontri di catechesi per famiglie – che magari uno rinuncia a una serata tranquilla in casa a chiacchierare con il proprio marito/moglie mentre i bambini giocano, che anche quello ci vuole qualche volta -, prima di tutte le proposte strutturate, la parrocchia dovrebbe essere uno spazio di relazioni, aperto al quartiere e non riservato ai soliti trenta frequentatori abituali.
Se siamo sempre alla rincorsa di tutto, se non possiamo mollare il lavoro e l’arzigogolata architettura delle nostre giornate e settimane, allora si dovrà trovare il modo di vivere da cristiani la vita di tutti i giorni semplicemente così, con un sorriso in più e la disponibilità a incontrare la gente del nostro quartiere, fosse soltanto dal panettiere. Forse non è poco arrivare a sera avendo fatto il proprio dovere di moglie o marito, ascoltando i propri figli nei loro bisogni più profondi, cercando di ricordarsi che la vita non è solo il solito “tran-tran”, ma c’è qualcosa che va oltre, c’è un senso da cercare in tutte le cose che si fanno.