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Roma

Gregorio di Narek, dottore della Chiesa

Domenica 12 aprile papa Francesco proclamerà dottore della Chiesa san Gregorio di Narek. L’atto pontificio ha un immenso valore sia dal punto di vista ecumenico, sia dal punto di vista storico

di Matteo CRIMELLA

11 Aprile 2015

Domenica 12 aprile papa Francesco proclamerà dottore della Chiesa san Gregorio di Narek. L’atto pontificio ha un immenso valore sia dal punto di vista ecumenico, sia dal punto di vista storico.

Gregorio di Narek è stato un sacerdote, un monaco, vissuto circa dal 950 al 1010 ed è ritenuto il Dante della letteratura armena. Il suo Libro della lamentazione (Matean olbergut’ean) ha nutrito e nutre la fede e la preghiera del popolo armeno che fino ai nostri giorni rumina quelle «parole» (ban) e le chiama semplicemente «il Narek». Questo libro è così popolare in Armenia da essere ritenuto quasi una reliquia: lo si pone al capezzale dei malati, si leggono i suoi capitoli in presenza degli infermi, nel passato addirittura si proclamavano alcune strofe sui campi per preservarli dalle tempeste.

Alla base del capolavoro di Gregorio v’è una duplice coscienza: da una parte un forte senso del peccato e una grande solidarietà universale proprio nella colpa, d’altra parte un’immensa fiducia nella misericordia di Dio, celebrata con toni elevatissimi. La forza del Libro della lamentazione sta tutta nella capacità di intessere un dialogo con Dio che è molto personale, spesso addirittura biografico, ma al contempo raggiunge l’esperienza più profonda di ogni uomo. In questa visione mistica tutto è coinvolto: la creazione, la storia, la vita della Chiesa. Scrive Gregorio: «Voce di gemiti, di singhiozzi di pianti, di grida del cuore innalzo a Te, a Te Veggente dei segreti. E sul mesto fuoco che l’anima mi brucia, ponendo l’offerta del frutto dei desideri inceneriti del mio spirito squassato, col turibolo del mio volere l’invio a Te» (Parola 1). Ogni pagina del Narek esprime i sentimenti dell’uomo segnato dal peccato: questo peso tuttavia non schiaccia il credente perché tutto è detto in preghiera, cioè raccontato a quel Dio di cui si conosce l’immensa misericordia. Infatti, inseparabile dal senso del peccato, è il senso della misericordia e questa certezza imprime al poema un’apertura colma di speranza verso colui che salva. Afferma il Narek: «Percosso come sono dalla verga delle molteplici sferzate e giunto sull’orlo della morte, ritorni ora in me un leggero soffio di respiro che mi faccia rinvenire qual anima viva, mi ristabilisca, mi conforti, mi raddrizzi, risusciti dalla morte della perdizione, sollevato dalla mano di Cristo, il Tenero in tutto, mentre mi venga elargito dal benefico Padre celeste, a me peccatore, malato e morto, il frutto della salvezza e della guarigione» (Parola 10).

Gregorio è un grande poeta mistico. Esalta l’amore di Cristo, un amore forte come la morte ed esprime il desiderio di essere unito a lui. Spesso fa uso di simboli e analogie e intorno ad un’immagine costruisce un poema che mette a nudo la sua sete di Dio. Così si esprime in uno dei suoi testi più famosi, entrato addirittura nella liturgia della compieta della Chiesa armena: «Accogli in dolcezza, o Signore, Dio forte, la preghiera di questo astioso ribelle, accostati teneramente a questo contuso in volto. Dissipa, o Donatore di ogni bene, la mia tristezza spudorata, togli da me, o Misericordioso, l’insopportabile zavorra, allontana, o Inventivo, le mie abitudini mortifere, manda in rovina, o sempre Vittorioso, le compiacenze dell’impostore. Disperdi, o Superno, la caligine del perverso, ferma, o Vivificatore, le scorrerie di chi trama la perdizione, fa’ svanire, o Veggente delle cose occulte, le malvagie invenzioni dell’impigliatore, distruggi, o Imperscrutabile, gli assalti del guerreggiatore. Traccia con il segno della croce il tuo nome sul lucernario di questo tetto, avvolgi con la tua mano il soffitto di questa casa, sigilla col tuo sangue l’ingresso della soglia della mia cella, imprimi il tuo segno sulle orme dei miei passi, di me che Ti imploro. Fortifica, con la tua destra, il giaciglio del mio riposo, purifica dalle sozzure il nascondiglio del mio letto, conserva, col tuo volere, l’anima tormentata del mio spirito, non lasciare che s’infesti il respiro, da Te concesso, del mio corpo. Circondami, come di una cinta chiusa, delle coorti del tuo esercito celeste, schierale a battaglia contro la banda dei demoni. Concedi, nel profondo della notte, un riposo di gioia al mio sonno simile alla morte, per l’intercessione delle suppliche della Santa Deipara e di tutti gli eletti. Raccogli e avvolgi la finestra della veduta delle percezioni dei miei sensi, ponendola al riparo dai flutti agitati delle faccende quotidiane, degli spettri dei sogni, dei folli fantasmi, protetta incolume col ricordo della tua speranza. E di nuovo desto dalla pesantezza del sonno in sobria veglia, che mi erga in Te nel gaudio che ritempra l’animo, per inviarti a Te in cielo, o Re d’ineffabile gloria, benedetto da tutti, questa voce di supplica con la fragranza della mia fede, partecipe al canto degli stuoli celesti che Ti glorificano. Tu sei infatti glorificato da tutte le creature nei secoli dei secoli» (Parola 12).

Alla vigilia dell’anno giubilare dedicato alla misericordia, proclamare dottore della Chiesa Gregorio di Narek è certamente un modo per riconoscere il valore del cantore della misericordia, la cui vita e le cui opere sono un inno all’immensa bontà di Dio, il Padre di Gesù.

Ma il gesto di papa Francesco, compiuto in questa settimana, ha pure un’ulteriore valenza. Il 24 aprile, infatti, si ricordano i 100 anni dell’arresto del grande poeta armeno Daniel Varujan, prima imprigionato con altri intellettuali, poi barbaramente ucciso a Istanbul dai giovani turchi: quel giorno è stato assunto come simbolo per ricordare il primo genocidio del secolo XX, quello del popolo armeno, un genocidio che i turchi non hanno ancora riconosciuto. Gli armeni chiamato il loro olocausto Metz Yeghérn, il «Grande Male»: si tratta della prima pulizia etnica di un secolo che chiude un millennio con altre orrende “pulizie”. La memoria di questo orrore deve essere custodita: dimenticarla infatti sarebbe stare al gioco perverso di coloro che hanno perpetrato questo omicidio di massa. Nella fede tuttavia non v’è spazio per alcuna forma di vendetta, ma solo per la giustizia e la misericordia, cantate con accenti incomparabili da Gregorio di Narek.