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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Suicidio assistito

«Quando i malati sono assistiti in maniera adeguata, non c’è richiesta di morte»

Assuntina Morresi, Università degli studi di Perugia: «La domanda di eutanasia è una questione antropologica: è la richiesta di decidere quando e come morire, secondo il proprio orizzonte valoriale individuale»

di Gigliola Alfaro Agensir

4 Agosto 2022
Foto Ansa / Sir

Un nuovo caso che fa discutere e riaccende i riflettori sul fine vita e sulla possibilità di introdurre in Italia, senza restrizioni, il suicidio assistito.

Elena, sessantanovenne veneta affetta da una patologia oncologica polmonare irreversibile e con metastasi, si è fatta accompagnare da Marco Cappato in Svizzera per il suicidio assistito. La donna non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, quindi non rientrava nei casi previsti dalla sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale. Ora è stato diffuso un video nel quale la donna spiega le sue ragioni e la sua visione della vita e della morte.

Il caso di “dj Fabo”

Fino alla sentenza 242 del 2019, il Codice penale vietava sempre l’assistenza nel suicidio di una persona. Poi, alla Corte costituzionale è arrivato il caso di “dj Fabo”, un altro paziente – cieco e tetraplegico – aiutato a morire in Svizzera proprio da Cappato. La sentenza 242 del 2019 ha stabilito che l’assistenza al suicidio non può essere punita quando il malato che la chiede è tenuto in vita da presidi di sostegno vitale; è affetto da una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche da lui ritenute intollerabili; ancora, è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, già è stato inserito in un ciclo di cure palliative.

Partendo dal caso di Elena, parliamo con Assuntina Morresi, presidente del Consiglio intercorso dei corsi di laurea e di laurea magistrale di Area Chimica del Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie dell’Università degli studi di Perugia.

L’assistenza fornita da Marco Cappato è una provocazione, secondo lei? Un ennesimo tentativo di forzare l’ordinamento giuridico italiano utilizzando un “caso pietoso”?
Purtroppo sì, è il tentativo di ottenere l’eutanasia bypassando il Parlamento, dopo la bocciatura del referendum sull’omicidio del consenziente da parte della Consulta. La storia mostra che per ottenere i cosiddetti “nuovi diritti individuali” si inizia ad aprire nei tribunali, su casi singoli: una volta creato il precedente, su quello si consolida una giurisprudenza che, dopo qualche anno, viene ratificata da leggi parlamentari. In aggiunta, questo di Elena non è certo un caso estremo: sicuramente doloroso ma in condizioni abbastanza comuni, purtroppo, come possono esserlo quelle delle persone con patologie oncologiche incurabili. Marco Cappato si è autodenunciato, evidentemente cercando di replicare il percorso che ha parzialmente depenalizzato il suicidio assistito. Vedremo se sarà anche giudicato dallo stesso tribunale che ha posto il quesito alla Consulta.

Il caso di Elena non rientra tra quelli previsti dalla sentenza della Consulta sul caso di dj Fabo, perché qui la signora non aveva dipendenza da supporti vitali. Quindi si è voluto forzare con un passo ancora in più verso la legalizzazione del suicidio assistito?
Direi che il tentativo è andare verso la liberalizzazione della morte medicalmente assistita. Le condizioni, infatti, sono radicalmente differenti da quelle indicate dalla Consulta: Elena non aveva sofferenze insopportabili ma riteneva che ne avrebbe avute in futuro, il che, fra l’altro, fa ipotizzare che avesse già deciso di non avvalersi di terapie del dolore e cure palliative, e neanche del percorso di morte possibile con la legge 219/2017 (quella sulle Dat e la sospensione dei trattamenti). Quindi si parla di “future sofferenze intollerabili”, il che, se fosse accettato come condizione per l’accesso alla morte assistita, aprirebbe incontrollabilmente la platea dei potenziali richiedenti. Dal video, poi, la signora appariva ancora autonoma, infatti è potuta andare da sola in Svizzera facendosi accompagnare solo da Marco Cappato, che non mi risulta facesse parte della rete familiare o amicale. Elena non aveva sostegni alla respirazione né all’alimentazione o all’idratazione, e si curava con cortisone. Insomma, a parte la volontà di morire e l’aiuto di Marco Cappato, non ci sono altri punti in comune con la situazione di dj Fabo.

Pur rispettando il dolore di Elena, non ci sono altre strade per accompagnare in queste fasi terminali della vita? Non sono forse le cure palliative e le necessità assistenziali i veri bisogni delle persone provate da malattie terribili?
Se l’eutanasia fosse una richiesta di malati gravi terminali, verrebbe innanzitutto dalle persone ricoverate negli hospice. Vediamo, invece, che non è così: al contrario, dove i malati vengono assistiti in modo adeguato insieme alle loro famiglie, non c’è richiesta di morte. La domanda di eutanasia non è una questione medica, ma antropologica: è la richiesta di decidere quando e come morire, secondo il proprio orizzonte valoriale individuale, a me sembra evidente che siano stati questi i termini della decisione di Elena. Dobbiamo riconoscere con chiarezza che si sta parlando di diritto a morire, con la consapevolezza della richiesta come unica condizione: l’omicidio del consenziente, insomma. È evidente che di fronte a questa situazione le cure palliative non possono essere una risposta efficace, perché la richiesta non è di sollievo alla sofferenza fisica di una malattia, ma di avere il diritto a morire con assistenza medica.

È necessario intervenire, secondo lei, con una legge prima che a colpi di mano e di sentenze si arrivi a legalizzare di fatto il suicidio assistito ed entri nella mentalità comune che sia la soluzione migliore rispetto a un fine vita doloroso?
Ritengo necessario legiferare, ma solo seguendo rigorosamente le indicazioni della Corte costituzionale. Non condivido l’apertura della sentenza della Consulta, ma sappiamo che non si può tornare indietro, purtroppo: è bene allora consolidare in Parlamento i confini stabiliti.

Come intervenire per evitare che la cultura dello scarto, di cui ci parla tanto papa Francesco, ci renda accettabile l’idea che alcune vite valgano di meno, solo perché piagate dalla malattia o dalla disabilità? È una condizione che purtroppo si registra anche a livello sanitario, talvolta…
Va riscoperta la dimensione solidale del nostro viver comune, per farlo dobbiamo partire dalle conseguenze di questo tipo di leggi. Nei Paesi in cui la morte assistita è legale, le richieste aumentano sempre, costantemente, ovunque. E allora iniziamo a domandarci: pensiamo sia un risultato positivo che sempre più persone preferiscano morire, piuttosto che vivere? È questo l’obiettivo che vogliamo raggiungere, legalizzando l’eutanasia?