Molto si parla nei tempi recenti della difficoltà che incontra il decollo dell’Europa. È da molti riconosciuta la sproporzione tra il rilievo dell’Europa sotto il profilo economico e soprattutto sotto il profilo culturale, e il suo rilievo politico. Il rilievo economico si misura: 18.140 miliardi di dollari di Pil, contro i 16.700 degli Usa e i 10.360 della Cina. Il rilievo culturale non si misura; e tuttavia è molto facile questa diagnosi sintetica: la gran parte delle risorse ci-vili di cui vive il mondo intero – scienza, diritto, letteratura ed arti in genere – sono prodotto della tradizione europea. I principi proclamati all’Onu, con vigore intenzionalmente mondiale, sono europei. Il rilievo politico è invece quasi nullo.
L’apparente sproporzione di cui si dice per riferimento all’Europa è soltanto l’indice di un fenomeno planetario, che ha di che preoc-cupare. Tutte le nazioni della terra, e quindi poi il pianeta nel suo insieme, minaccia di tagliare le radici dalle quali nasce. Esiste l’Onu, esiste in tal senso un’istituzione politica planetaria, soltanto perché c’è l’Europa. Ma all’Onu l’Europa non c’è.
L’idea di Europa, o più precisamente l’ideale politico di Europa, è abbastanza recente. È, fondamentalmente, un prodotto della cultura illuminista. Nasce a correzione delle divisioni linguistiche ed etniche, che rendevano i paesi europei così litigiosi e sempre in guerra reciproca. L’ideale Europeo appare in tal senso, paradossalmente, molto poco europeo; i fautori di quell’ideale per criticare i pregiu-dizi europei si portano dal punto di vista dei persiani; ai loro occhi – suggerisce Montesquieu nelle famose Lettere persiane (1721) – appare con chiarezza l’ottusità dei francesi e dei tedeschi.
L’ideale europeo nasce universalista; una delle sue espressioni maggiori pare proprio questa, la negazione dell’eurocentrismo. Figli di quell’ideale sono, in tal senso, i diritti universali dell’uomo piut-tosto che una positiva immagine dell’umano, della città e della ci-viltà.
A misura in cui di quei diritti si appropria l’Onu, e le società europee assomigliano sempre più a quelle nordamericane, a misura in cui il mercato omologa il mondo intero, appare con crescente chia-rezza la differenza europea, ma anche come quella differenza sia in crisi.
In anni ormai lontani, in molteplici intervenni, Benedetto XVI segnalò come esistano due Europe: quella illuminista e quella cristia-na. E associò con insistenza l’immagine cristiana dell’Europa al nome di san Benedetto e alla tradizione del monachesimo. Di più, qualificò l’Europa benedettina come l’Europa vera, e quella illumi-nistica come finta. La più presente sulla scena pubblica – occorre riconoscerlo – è la seconda. Proprio essa conosce evidenti e cre-scenti difficoltà. Non sarà giunta l’ora di riscoprire l’altra?
Benedetto rappresenta un cristianesimo che eleva l’intenzione di diventare principio di civiltà, di cultura, di formazione umana. Esso punta sulla stabilitas loci. La Regola prescrive infatti che il candi-dato monaco
al momento dell’ammissione faccia in coro, davanti a tutta la co-munità, solenne promessa di stabilità, conversione continua e ob-bedienza, al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da es-sere pienamente consapevole che, se un giorno dovesse compor-tarsi diversamente, sarà condannato da Colui del quale si fa giuoco» (cap. LVIII).
Un nesso chiaro lega la stabilitas loci alla conversione dei costumi; per i monaci era facile l’illusione che, al disagio incontrato in un certo habitat, si potesse rimediare trasferendosi altrove. Anche per gli europei moderni e anglofoni è facile la tentazione di cercare rimedio agli inconvenienti incontrati in un luogo traferendoci altrove. Benedetto sa che al disagio non si rimedia cambiando il luogo, ma soltanto cambiando i costumi. E per propiziare la conversione dei costumi risorsa preziosa è la fedeltà ai rapporti intrapresi. Attraverso tale fedeltà si costruisce la “comunità”, o addirittura la comunione, un’intesa che non si basa sulla complicità ammiccante, ma su un ethos condiviso.
Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso; ma se, per la corre-zione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una cer-ta austerità, suggerita da motivi di giustizia, non ti far prendere dallo scorag-giamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida. Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore. Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra soffe-renza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno. Amen.» (Prologo 45-49).
La tradizione monastica molto ha concorso, nella storia di Europa, alla formazione dell’uomo. Non all’ascesi, non semplicemente alla penitenza e al rinnegamento – come troppo spesso si pensa, o si di-ce. Quel che soprattutto manca alla formazione dell’uomo, alla forma morale della vita umana, è appunto l’assiduità dei rapporti.
Il potere di fare (la tecnica) si è enormemente accresciuto. Molto son cresciuti anche i poteri di auto manipolazione dell’uomo. Sem-pre minore appare invece la capacità morale dell’uomo, che è come dire la capacità di decidere di sé, di disporre di sé.
Sì, certo, molto si declama e si reclama in fatto di giustizia, di pace, di uguaglianza, di libertà, di tolleranza, di rispetto del creato, e altri “valori” del genere. «Ma questo moralismo rimane vago e scivola così, quasi inevitabilmente, nella sfera politico-partitica. Esso è an-zitutto una pretesa rivolta agli altri, e troppo poco un dovere perso-nale della nostra vita quotidiana. […] Negli ultimi decenni abbiamo visto ampiamente nelle nostre strade e sulle nostre piazze come il pacifismo possa deviare verso un anarchismo distruttivo e verso il terrorismo». Così si esprimeva nel 2005 il card. Ratzinger in una conferenza tenuta a Subiaco, che aveva per oggetto appunto il rap-porto tra Benedetto ed Europa.
Il moralismo politico degli anni Settanta, le cui radici non sono affatto morte, fu un moralismo che riuscì ad affascinare anche dei giovani pieni di ideali. Ma era un moralismo con indirizzo sbagliato in quanto privo di serena razionalità, e perché, in ultima analisi, metteva l’utopia politica al di sopra della dignità del sin-golo uomo, mostrando persino di poter arrivare, in nome di gran-di obbiettivi, a disprezzare l’uomo.
Vogliamo rivisitare la tradizione di san Benedetto per trovare do-cumento non dei diritti dell’uomo, ma dell’uomo retto, diritto, ca-pace di promettere e di ricordare, di rispondere di sé sempre e di fronte a tutti, di seguire un Pastore, e non arrendersi invece ad es-sere unico gregge senza alcun pastore.