«Andando a Kiev, diciamo: siamo tutti ucraini e siamo tutti europei. Siamo qui con voi e portiamo i nostri corpi per dirvelo, rischiando anche in prima persona». È il “pacifismo” spiegato da Riccardo Bonacina, fondatore di Vita e tra i promotori del Progetto Mean (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) e della Marcia per la pace che si terrà a Kiev lunedì 11 luglio, con 150 persone prenderanno parte all’evento. «Non possiamo essere di più per ragioni di sicurezza», spiega il giornalista.
Ma l’iniziativa è aperta a tutti e la sera di domenica 10 luglio, alla vigilia della manifestazione, saranno collegate con Kiev 15 piazze italiane ed europee (una a Londra) dove altri 500 attivisti faranno sentire la propria voce e il proprio sostegno alla società civile ucraina. Lunedì 11, a Kiev, i presenti prenderanno parte a una plenaria dove interverranno anche il Sindaco, la Vicesindaco della città e il Nunzio apostolico. A sostenere l’iniziativa ci sono 35 organizzazioni italiane, tra cui l’Azione Cattolica. «È un’iniziativa nata fin dai primi giorni dell’inizio della guerra», racconta Bonacina. Mesi di incontri, anche in Ucraina con i rappresentanti della società civile. Per capire, avviare relazioni, promuovere iniziative. «È stato molto complicato», confida il giornalista.
E come è andata?
All’inizio, quando parlavamo di pace e della necessità di uscire dalla logica della guerra, ci dicevano: «Portateci le armi e aiutateci a proteggere la nostra gente che fugge». Nel cammino di questi due mesi si è fatta strada l’idea che la non violenza è un’arma di diverso tipo, di “costruzione di massa”. Abbiamo dialogato, a giugno abbiamo incontrato tante organizzazioni ucraine e anche la Municipalità di Kiev. Andiamo senza giudicare quello che stanno facendo, anzi lo comprendiamo, ma andiamo con l’idea di lavorare per la pace come altra via di resistenza e per guardare insieme a un futuro da costruire al di fuori della logica di contrapposizione armata. Abbiamo scelto la data dell’11 luglio perché è il giorno di San Benedetto, patrono d’Europa, ma è anche l’anniversario di Srebrenica, il peggior massacro dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando sotto gli occhi dell’Onu furono massacrati 8.000 ragazzi e uomini musulmani. L’11 luglio è quindi un giorno di speranza, ma anche il giorno di un fallimento storico recente.
Il conflitto in Ucraina non si risolverà a breve. Sarà lungo e doloroso. La parola “non violenza”, che porterete nel cuore dell’Ucraina, che tipo di prospettiva concreta può avere?
Intanto la guerra alimenta sempre lo schema binario amico/nemico, buono/cattivo, armi/non armi e man mano disegna un mondo senza possibilità di intesa, anzi incrementa un odio addirittura parentale. Abbiamo deciso che era importante dare il segno di uscire da questa logica cercando pensieri e relazioni in cui l’intesa sia almeno augurabile. Loro stessi sono stanchi della guerra. È vero, non è una guerra che arriverà al cessate il fuoco a breve. Ma se vuoi guardare al futuro, dobbiamo provare a entrare in un’altra logica. E capire insieme quale può essere una la strada alternativa.
Oltre allo schema binario amico/nemico, in Ucraina ce n’è drammaticamente un altro, quella di aggredito/aggressore. Di fronte a questa realtà, la parola non violenza come si può declinare?
Si declina abbracciando l’aggredito, aiutandolo, sostenendolo, soccorrendolo. Ma anche innescando logiche che possano essere un pochino diverse e un pochino oltre la resistenza armata. Non siamo pacifisti ideologici. Ci hanno definito in questi giorni come «pacifisti concreti» e «pacificatori». Quest’ultima definizione ci piace molto. Il nostro tentativo è quello. L’Ucraina non è il palcoscenico né dei nostri ragionamenti, né dei nostri sentimenti. Non andiamo in Ucraina per dire che siamo buoni e pacifici. Andiamo lì per abbracciare il popolo ucraino e per aiutarlo.
Parlando con le associazioni ucraine, cosa vi hanno chiesto? Di cosa hanno più bisogno?
Vogliono sentirsi veramente parte dell’Europa. Hanno bisogno che degli europei vadano lì. La nostra idea quindi è far sentire che la vicenda Europa – da cui loro sono partiti con la piazza Maidan nel 2014 – non è solo una questione che si apre e si chiude in Ucraina e all’interno delle istituzioni europee, ma è una questione di società civile che ci coinvolge tutti.
Perché non una marcia a Mosca?
Venerdì sera a Milano un gruppo di russi uniti nella associazione “Comunità dei russi liberi” farà una manifestazione in piazza Duomo alle 19.30 contro la guerra e contro il putinismo. È uno dei segnali interessanti. Abbiamo cercato un dialogo anche con la società civile russa, ma non è facile. Alcuni giorni fa, hanno arrestato un grande fisico, in fin di vita, nel reparto di terapia intensiva di una clinica di Novosibirsk, e lo hanno messo in carcere. È morto il giorno dopo. Da un regime autoritario sono arrivati a un regime totalitario. È complicato.