L’evoluzione dell’arte sacra
dal Concilio di Trento al primo Seicento lombardo
attraverso un centinaio di opere
in una grande mostra che verrà inaugurata
il 4 novembre, festività di san Carlo Borromeo.
di Luca Frigerio
Pane ed acqua. Di questo soltanto nutre il corpo il principe della Chiesa, Carlo Borromeo. Il volto è smagrito, scavato, quasi di quello stesso pallore di morte del Cristo crocefisso che ha davanti a sé. Con una mano prende un boccone, e ancora esita a portarlo alla bocca, preso com’è dalla lettura emozionante, commovente fino alle lacrime, delle pagine evangeliche della Passione. Queste sì, il vero, fortificante nutrimento dell’anima sua. Sul fondo s’affacciano discreti due personaggi, forse perplessi, ammirati senz’altro. Il vescovo Carlo digiuna, dopo aver dato ogni energia per il suo gregge, fino alla consunzione. E pensare che il suo predecessore era morto di indigestione, senza mai aver messo piede nella diocesi che gli era stata affidata…
Basterebbe questo splendido dipinto per illustrare la rivoluzione borromaica, per farne intuire il senso, per comunicarne la portata. Daniele Crespi ne è l’autore, il più giovane e il più spregiudicato di quella straordinaria pattuglia d’artisti che operò a Milano tra la fine del Cinquecento e il primo trentennio del XVII secolo: i “pittori della peste”, come furono acutamente definiti da Giovanni Testori. Interpreti fedeli di un’epoca di crisi , di una società sconvolta da una sofferenza economica straziante, dilaniata da flagelli epidemici, prostrata da governanti corrotti e insipienti, e tuttavia ancora fiduciosa, ancora capace di riscatto, che si stringe attorno alle uniche guide certe rimaste, Carlo prima, Federico poi.
Angosce e speranze. Luci e ombre. Proprio come nel quadro del Crespi, dove un bagliore pare irrompere dal sacro libro per avvolgere la figura del vescovo, squarciando le tenebre. Eccola, dunque, la luce dei Borromeo. Immagine forte che nelle sale del Museo Diocesano di Milano diventa titolo emblematico di una grande mostra dedicata all’evoluzione dell’arte sacra lombarda dal Concilio di Trento al primo Seicento: l’età borromaica, appunto.
San Carlo chiedeva al suo popolo di seguirlo sulla strada di una fede vera, profondamente sentita, senza compromessi. Le sue parole convertivano, il suo esempio infiammava. Ma uno dei nodi fondamentali di questa riforma militante, per sua esplicita dichiarazione, fu proprio l’uso delle immagini, intese come mezzo di comunicazione, privilegiato e immediato, con i fedeli. Immagini la cui venerazione, secondo quelle direttive tridentine che lo stesso Borromeo aveva ispirato, non soltanto era tollerata, ma perfino favorita, quali strumenti di «continua rimembranza degli articoli di nostra fede ».
Per questo Carlo e Federico dedicarono spazio e tempo della loro azione pastorale all’espressione dell’arte, stilando norme precise, offrendo osservazioni e commenti per l’esecuzione di pale e dipinti, su come interpetrare e presentare i vari temi religiosi, su come strutturare e predisporre gli edifici e i luoghi destinati al culto. Nulla doveva distrarre, nulla doveva essere concesso al mero intellettualismo. Ma, al contrario, dagli artisti si esigeva semplicità di composizione, onestà di sentimenti, autentico realismo. In una parola, capacità di arrivare direttamente al cuore degli uomini, anche dei meno preparati culturalmente.
Di un simile linguaggio, i “pittori della peste” divennero appunto i maestri. Nati e cresciuti nel clima morale suscitato da san Carlo, stimolati dalla guida del cardinal Federico (mecenate e collezionista, fondatore della Biblioteca e della Pinacoteca Ambrosiana), riuscirono ad elaborare una pittura “d’urto”, gloriosa e immaginifica nell’impatto, tesa a mostrare le più sordide bassezze e, per contrasto, i più alti valori umani, addentrando lo spettatore negli orrori delle miserie per poi innalzarlo tra i prodigi e le estasi dei santi.
E allora eccoli, i “pestanti”, tra le volte dei chiostri di Sant’Eustorgio. Con le composizioni monumentali e scenografiche, di sconvolgente originalità, di Giovan Battista Crespi detto il Cerano. Con la pittura sciolta e fantasiosa, dai caldi echi emiliani, di uno dei più dotato rampolli di casa Procaccini, Giulio Cesare. Con gli i riflessi tremendi e vibranti, di profondissimo umore, di Tanzio da Varallo. Con il nostro Daniele Crespi, i cui morbidi accenti rivelano lo studio dell’arte di Rubens.
E su tutti, a nostro giudizio, le figure drammatiche, seppur eleganti, sfaccettate da lame di luce, di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone. Allievo a Roma del Cavalier d’Arpino, a contatto forse con il Caravaggio, ammiratore del Tintoretto in Laguna, corona la sua formazione tra i Sacri Monti, a incarnare sulle pareti delle cappelle i misteri della fede cristiana, con un coinvolgimento, con una passione, che non è solo professionale, ma autenticamente, profondamente vissuta. Proprio secondo l’insegnamento del santo Borromeo.
Aperta fino al 7 maggio 2006
presso il Museo Diocesano di Milano
(corso di Porta Ticinese, 95), la mostra
Carlo e Federico. La luce dei Borromeo
presenta circa ottanta opere di straordinaria qualità,
articolandosi in tre sezioni:
dall’età di san Carlo
agli influssi della pittura di Caravaggio,
fino agli anni del cardinal Federico.
Orari: da martedì a domenica, dalle 10 alle 18.
Per informazioni e prenotazioni, tel. 02.89420019