Papa Francesco racconta che quando si arrabbia – succede anche ai Successori di Pietro – tocca la croce del Rosario usata per tutta la vita da una persona ricchissima di misericordia, il confessore padre Aristi. Croce che, dalla morte del confratello, egli ancora oggi porta sempre indosso. L’episodio, narrato nel libro di Andrea Tornielli Il nome di Dio è Misericordia, la dice lunga su cosa significhi la misericordia per il Papa venuto dalla fine del mondo. Qualcosa di fisico, di concretissimo, di reale, di forte e viscerale.
Nel Cineteatro Stella (Sala della comunità della parrocchia Santi Quattro Evangelisti) gremito e con tanta gente in piedi, con l’intervento del cardinale Scola si presenta il volume del vaticanista de La Stampa, frutto di una conversazione intensa, profonda e, in certi pagine, persino spiazzante, col Papa che, partendo dal Giubileo, arriva a toccare molti e diversi ambiti del presente.
«Di fronte alla fragilità dei comportamenti di oggi, alla dimenticanza dell’individualismo attuale, la misericordia è quella mano che “tiene il mento” e che fa guardare avanti. Da questo libro, che è una vera perla, viene fuori ciò che il Papa è, il suo stile che ci provoca», spiega l’Arcivescovo, che aggiunge le sue impressioni personali sull’intervista, definendola «una fotografia dinamica del Pontefice». «Penso a come papa Francesco parla del peccato: Dio ha scelto la strada per cui ci raggiunge proprio nel peccato, portandoci e ri-portandoci a Lui. E poi la confessione: il Papa mette il peccato in relazione alla vergogna, che è come la breccia attraverso cui la misericordia passa, mentre noi, narcisi come siamo, non riusciamo ad accettare con facilità neppure gli sbagli. Eppure il peccato è qualcosa di più: non è errore, è una scelta obiettiva, che può diventare corruzione e vizio. Se pensiamo a cosa Cristo ha sofferto per il nostro peccato, abbiamo la percezione di che obbrobrio sia il peccato stesso».
Colpito, il Cardinale, anche da alcune pagine tra le più belle e profonde dell’intera intervista, nelle quali si parla dello «stupore che la misericordia del Padre genera in noi, in una dimensione personale, comunitaria e sociale». Da qui una riflessione ulteriore: «Esiste sempre un conflitto tra la giustizia e la misericordia – umanamente parlando, non è facile mettere insieme le due dimensioni -, mentre il racconto testimoniale del Papa, così intenso, riconduce a unità questi due aspetti», ai quali Scola ha peraltro dedicato l’ultimo Discorso alla Città. «Francesco dice che, con la misericordia, la giustizia è più giusta e questo è davvero molto interessante. In una società plurale come la nostra, che rischia di scambiare ogni inclinazione e pulsione in un diritto, pretendendo che il legislatore vi legiferi, la giustizia è ancora più difficile. Tuttavia, proprio l’impossibilità di giustizia piena, introduce il tema della misericordia che porta con sé il carattere del dono. Stupisce questa intervista e attrae, perché non c’è giornata o uomo che non abbia bisogno di tale mano che ci regge. Ricordiamoci – e infatti il Papa lo sottolinea – che, in forza della misericordia, la ripresa è sempre possibile. La vita morale, cristiana, non è l’impeccabilità, ma la ripresa, come comprenderebbero tutti i nostri fratelli e sorelle battezzati, che hanno perso la strada di casa, se attraversassero la Porta Santa. Troverebbero una pace, una vera umanità, un gusto di vita, una forza di condivisione e una dilatazione del bisogno in desiderio, come sempre Gesù suscita nei suoi figli, che è il vero compimento di sé».
«Mi piace che il titolo del volume sia Il nome di Dio è misericordia – non “misericordio” e ciò rimanda con chiarezza a una dimensione femminile -, perché riporta un’attenzione fondamentale su ciò che il nome indica. La misericordia di Dio è coinvolgersi, lasciarsi toccare, chinarsi verso l’uomo – spiega la docente di Sociologia dei media alla Cattolica Chiara Giaccardi -. «Poteva essere il titolo anche di un testo sull’Islam, perché il primo nome di Allah è “il misericordioso”. Vi sono più punti di contatto con le altre religioni di quello che pensiamo, anche con l’Ebraismo, che possono farsi punte di dialogo. Tanto che la radice della parola araba rah significa “utero”. Infatti la misericordia non è un “dover essere buoni”, ma una dimensione viscerale. Anche qui troviamo un titolo in arabo di Allah, che significa “Colui che ci tiene nel suo grembo”, definizione che è trasversale e indica una misericordia che ha a che fare con la maternità, con il “prendersi cura dentro” anche nel e del cammino della Chiesa. Noi non siamo misericordiosi perché siamo buoni con un compito etico, ma perché siamo “misericordiati”, amati per primi dal Signore. E, quindi, la misericordia, è sempre una risposta, è un decidere di lasciarsi toccare, riconoscendo le nostre mancanze ed essendo compassionevoli di fronte alle mancanze degli altri». Non a caso, «papa Francesco ci dice che il modo di curare le situazioni malate è lasciarsi coinvolgere, creando legami che durano. La misericordia è l’unico antidoto all’individualismo di oggi».
Il pensiero è a social media come Tinder, che promuove una relazione impersonale, anonima e già segnata, in origine, dalla precarietà e dalla fine dei rapporti: «Contro la “tindarizzzazione” ricordiamoci che la relazione non è un nostro prodotto, ci precede e, per questo, la possiamo coltivare. Quando si accusa implicitamente il Papa di “buonismo”, non si comprende che la sua idea di misericordia è il luogo massimo del realismo, perché è un modo di vedere la realtà da vicino, un tipo di postura che offre un accesso privilegiato alla vita vera, capace di cogliere tutti gli aspetti dell’esistente. Così ci apriamo a un orizzonte nuovo, in cui la misericordia non è un cupo “dover essere”, ma un momento di autentica liberazione umana e, dunque, di quella gioia di cui oggi abbiamo tanto bisogno».
Suggestivo e come sempre coinvolgente, nell’allegria della leggerezza che nasconde la vera serietà, il monologo di Giacomo Poretti: «La misericordia è l’Everest del cristianesimo e noi dovremmo essere contenti? Dovevamo capirlo da subito che questo Papa ci avrebbe messo alla prova. Scalarlo è terribilmente difficile, perché dobbiamo riconoscere che tutti sbagliamo. Dovremmo allora smettere di recitare il sillogismo “gli altri sono imperfetti, io non sono l’altro, quindi sono perfetto”. Sarebbe come tuffarsi in un laghetto delle Alpi: un bagno di umiltà gelato, ma tonificante. Non è facile il compito che ci ha apparecchiato papa Francesco. Ma soprattutto, come metterlo in pratica? Non giudicando». E Poretti stila allora, una sorta di nuovi “Dieci comandamenti” di attenzione, rispetto agli altri e a se stessi, per non «mettere in campo l’ipocrisia e l’indigesta bevanda della vanità, seguendo fiduciosi questo personale trainer dell’umanità che è papa Francesco».
Poi è la volta di Filippo Morgante che racconta la sua esperienza di vita dura: trent’anni di carcere e, tra tante traversie, la scoperta del progetto del Penitenziario di massima sicurezza di Opera, intitolato “Libera-mente”, cui partecipa attivamente: «Forse non avrei fatto tutta questa carcerazione, fin da ragazzo, in tre diverse tornate, se avessi trovato qualcuno che mi avesse usato misericordia. La prima volta ho detto: “Se esco, faccio una vita regolare, vado a lavorare”. Invece il carcere – dove si lotta per la sopravvivenza, per non essere sopraffatti -, anziché redimere, ti rende più duro, al punto che quando sono uscito, ero un delinquente, avevo acquisito la scuola dei soldi facili. Così sono tornato dietro le sbarre, prima per 14 anni e, ancora, per altri 13. Poi ho conosciuto “Libera-mente” e ho scritto persino poesie. Non è da me, mi sono detto, non ci credevo, ma ormai ce l’ho quasi fatta. Se ci fossero più spazi all’interno per socializzare anche con le persone esterne, come i volontari, potremmo cambiare». E legge, Morgante, la poesia, veramente bella, di un amico detenuto, Pino Carnovale: «Insegnami a essere misericordioso come Te, grande Spirito, io sono pronto a seguirti… Nelle tue parole troverò la mia vita».
Infine l’autore, Andrea Tornielli, che avvia il suo breve intervento da una risposta del Papa – «anche il riconoscerci peccatori è una grazia in cui bisogna credere» – e che, colpito dalla capacità del Vescovo di Roma di avere a cuore ogni persona che gli si avvicini (anche i giornalisti), spiega: «Quando il Papa dice che la Misericordia ha a che fare non solo con il rapporto con Dio, ma con la vita civile e la società, dice la verità. Senza una visione simile non si raggiungerà mai una pace vera, anche nelle nostre comunità. Riconoscere i nostri limiti ci permette di riscoprire la dinamica dei Vangeli, in cui Dio ci precede, ma sta a noi fare almeno un passo. Credo che chiunque abbia fatto l’esperienza di essere perdonato e, per grazia, di perdonare, capisce che il vantaggio non è per il perdonato, ma per chi perdona. Si sta meglio. In questo abbraccio di perdono donato gratuitamente, siamo aiutati a riscoprirci sempre più piccoli e così, ogni volta, sempre più perdonati».