Cinque vescovi e una trentina di sacerdoti concelebrano, mercoledì pomeriggio, la S. Messa in San Babila presieduta dall’arcivescovo di Milano, card. Dionigi Tettamanzi. Cerimonia particolarmente sentita dai presenti, occasione per ricordare mons. Grazioso Ceriani, sacerdote e teologo milanese, che nel 1951 diede vita al Cop, e proprio in San Babila trascorse 27 anni del suo ministero pastorale. Davanti all’altare, a fianco del cardinale, l’attuale presidente del Cop, nonché vescovo di Palestrina, mons. Domenico Sigalini, il presidente emerito e arcivescovo emerito di Siena, mons. Gaetano Bonicelli, il vescovo di Alba, mons. Sebastiano Dho, quello di Vigevano, mons. Claudio Baggini, e l’ausiliare della diocesi di Milano, nonché vicario generale, mons. Carlo Maria Redaelli.
Il fondatore del Cop e la missione cittadina del 1957: queste le due polarità su cui il card. Tettamanzi costruisce la sua OMELIA. Mons. Ceriani, ricorda, “ha dedicato la sua mente e il suo cuore a riflettere, a studiare, a insegnare e a vivere il suo ministero in una prospettiva pastorale tipicamente missionaria”, animato da una “passione spirituale” che lo ha portato “a elaborare una sua ‘teologia pastorale’ e a inventare e proporre, prima l’Istituto di studi superiori ‘Didascaleion’, e poi il Cop, con le sue diverse istituzioni e iniziative, soprattutto le settimane di aggiornamento pastorale”. Mentre “non si può parlare adeguatamente di missione se non risalendo a Gesù risorto, o meglio lasciando che Gesù risorto entri sempre di nuovo nel cuore e nella vita dei suoi discepoli e sempre di nuovo riconsegni loro il mandato missionario”. Un mandato che richiede “una duplice grande fedeltà”: “fedeltà a Cristo e al suo Vangelo eterno” e “fedeltà all’uomo, ai suoi valori radicali e alle sue esigenze più profonde nel proporsi storico”.
UNA MISSIONE PERMANENTE
Vivere “in uno stato permanente di missione” è l’invito di don CARMELO TORCIVIA, che interviene mercoledì mattina. Bisogna realizzare nei fatti, e non solo a parole, “un’evangelizzazione rinnovata nel suo ardore e nei suoi metodi”. “La società contemporanea ha coordinate culturali diverse rispetto al passato”, osserva, che necessitano di “pastorali nuove”, come quella del primo annuncio, che non può essere solo “rivolta all’esterno”, ma deve riguardare anche “la comunità cristiana al suo interno”. “Bisogna saper concentrare e finalizzare le pratiche ecclesiali alla conversione –sottolinea – ed essere capaci di rifletterci teologicamente”, pena il rischio di restare “legati culturalmente a modelli di Chiesa statici, di cura animarum, di conservazione dell’esistente”. Invece, “una Chiesa in stato di conversione permanente non si stanca mai di cambiare, si lascia sempre interrogare dal dinamismo pasquale della morte e risurrezione di Cristo” e vive questa conversione non in una logica individualistica, ma come “fatto comunitario, ecclesiale e pastorale”.