Non è la prima volta che una parrocchia invita qualche detenuto per condividere insieme alcuni momenti. È capitato domenica scorsa alla comunità di Sant’Eusebio. La chiesa sorge tra i quartieri più malfamati di Cinisello Balsamo dove negli anni Ottanta sono spuntate in un lampo diverse case popolari. Tra i promotori dell’iniziativa suor Cristina Clerici, ausiliaria diocesana e volontaria della Sesta Opera San Fedele che fa capo ai gesuiti. Quando era a Baranzate aveva conosciuto uno dei reclusi di Bollate, oggi tra i più attivi nelle parrocchie. La presenza e testimonianza di 8 detenuti – usciti in permesso per l’occasione dalle 8 del mattino alle 9 di sera – si inseriva nel cammino di Quaresima. «Oltre a esporre e vendere i loro prodotti – spiega suor Cristina – hanno portato la loro testimonianza a tutte le Messe». In chiesa Santo Tucci ha raccontato la sua storia, la vita in carcere e la speranza nei confronti della gente. Vuole essere a disposizione delle comunità ecclesiali «per ripagare il male fatto» e perché «le parrocchie sono stati i primi luoghi ad accogliermi». Santo deve scontare ancora tanti anni, ma ora esce a lavorare alcuni giorni alla settimana e procura il lavoro anche a qualche compagno «per dare una speranza e una dignità». In carcere è diventato un artista, si è specializzato nell’artigianato e realizza oggetti in vetro e ferro battuto. Dopo il pranzo con qualche volontario, la giornata a Sant’Eusebio è continuata nel pomeriggio con l’incontro degli 8 amici, il gruppo adolescenti e i ragazzi di terza media; la sera invece una cena conviviale con i più piccoli che si preparano alla Cresima e i loro genitori. Il confronto è andato sul rispetto delle regole e della legge, «temi importanti», dice suor Cristina, «perché nel nostro quartiere non esistono più». A cena, con una sessantina di persone, i detenuti erano suddivisi tra i tavoli e il dialogo con genitori e figli è stato spontaneo e fraterno. «Al termine della giornata tutti hanno ringraziato per la bellissima testimonianza». Il carcere, ha spiegato Santo, «non deve essere soltanto punitivo, perché uscendo io rischio di essere peggio di quando sono entrato». «I detenuti – aggiunge suor Cristina – si rendono conto che erano delinquenti, però ora dicono: “Qualsiasi cosa avete bisogno, chiamateci! Essere a vostra disposizione ci dà un senso di rispetto e di speranza. Così possiamo ripagare la società di quello che le abbiamo tolto». Spesso i compagni più fortunati che escono da Bollate portano all’esterno anche gli oggetti che creano i detenuti che non hanno ancora il permesso. «Alcuni stanno realizzando quadri con il legno e il das, mentre un altro gruppetto sta facendo rose di sapone», dice suor Cristina che nei giorni scorsi è andata per loro in colorificio. «L’aspetto significativo è che non vogliono mai i soldi ricavati dalle vendite, ma chiedono di acquistare altro materiale per creare un laboratorio, continuare a lavorare e sentirsi utili alla società».
Testimonianza
«Restituiamo alle parrocchie il male fatto»
Sono usciti in otto dal carcere di Bollate per trascorre una giornata a S. Eusebio raccontando la loro esperienza ai ragazzi e ai genitori
di Luisa BOVE
24 Marzo 2013