«Una fede per tutti? Forma cristiana e forma secolare» è il titolo del convegno annuale di studio promosso dalla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, con il quale, per le due giornate del 25 e 26 febbraio si approfondirà la realtà – o, meglio, le diverse declinazioni – del senso religioso contemporaneo. E tutto per un «chiarimento» che appare ormai urgente e indilazionabile da un punto di vista di elaborazione culturale, ma anche di prassi ecclesiale. Ma cosa significano, anzitutto, forma cristiana e forma secolare?
«L’aspetto primario del convegno è quello di “dire” la fede oggi in concreto, ossia come occorre attivarsi, nell’azione di tutti i giorni, in ordine al credere cristiano – riflette don Sergio Ubbiali, docente ordinario di Teologia sistematica e relatore al convegno -. È sotto gli occhi di tutti che la nostra società – continua – è caratterizzata da una cultura dominante lontana dalla fede, apparentemente molto distante dalla pratica e dai principi cristiani, ma che poi, provvede ad essere attenta a quegli elementi che la gente continua a vivere in determinati momenti forti dell’esistenza come il Battesimo dei bambini, la malattia o la morte. Tutto questo testimonia con chiarezza che il presunto distacco, continuamente rivendicato, spesso con orgoglio per una malintesa difesa della laicità, non sia sempre congruo con le attese profonde che le persone, anche oggi, portano nel cuore».
Per questo la definizione di «cristiano incoerente» o, addirittura, di «battezzato non credente» vi paiono un poco sbrigative, come si può leggere nella presentazione del convegno?
Certamente e appunto per questo abbiamo deciso di confrontarci, a più livelli, sul tema, in considerazione della pluralità degli approcci attuali al problema della fede e dell’agire. Crediamo che si debba riarticolare queste formule in modo da abbracciare il più possibile le diverse peculiarità che l’esperienza quotidiana possiede e mostra.
Il cardinale Angelo Scola, nella sua Lettera pastorale Il campo è il mondo, parla proprio del rischio di un «ateismo anonimo» anche nelle nostre terre tradizionalmente ricche di profonde e popolari radici cristiane. Se la necessità è quella di passare «dalla convenzione alla convinzione», bisogna interrogarsi anche sulla questione dei linguaggi da utilizzare per comunicare «la bellezza del credere» all’uomo del terzo millennio?
La mia relazione al convegno tratterà appunto del linguaggio cristiano. Ritengo che la Lettera dell’Arcivescovo abbia come mira primaria la cura della fede di ciascuno e della missione che ognuno di noi ha all’interno della comunità. In questo senso, è un invito prezioso per i credenti a procedere in una maturazione obiettiva della propria fede in Gesù Cristo. Mi sembra che un tale cammino possa essere percorso ritrovando una “grammatica” comune, non soltanto marginale o superficiale dell’essere cristiano, ma sostanziale, che sappia andare alla radice e alle ragioni ultime del credere. L’idea che vorrei tratteggiare è appunto questa: come la prima fase cristiana della Patristica ha dovuto compiere un processo di adeguamento alla realtà, rendendo disponibili dei “linguaggi”, così dobbiamo fare noi oggi per intercettare – ripeto – le tante esperienze che si intrecciano nelle nostre vie metropolitane. Anche perché il fedele e colui che definiamo “l’uomo secolarizzato” – il credente e chi dice di non poter o volere credere, per usare termini comprensibili a tutti – non delineano più le due dimensioni del “dentro” e “fuori” rispetto alla cristianità, ma si mescolano in modo spesso inestricabile. Credo che la teologia che – come ci ha indicato il Cardinale – si configura come uno strumento privilegiato di evangelizzazione debba tenere conto delle mutate condizioni contemporanee.