Nessuno di noi 673 Sinodali immaginava quel 4 novembre 1993, mentre camminava processionalmente dalla chiesa di san Carlo al Corso verso il Duomo per l’apertura ufficiale del 47° Sinodo della Diocesi di Milano, che cosa ci aspettasse – in termini di tempo e di impegno personale – nei mesi a venire. Mi soccorrono i numeri: due mesi passati nei lavori di commissione (anche due volte la settimana) e poi 31 sessioni plenarie (quasi tutti i sabati fino all’estate del 1994), un migliaio di interventi in aula, oltre 30 mila emendamenti suggeriti, un milione di fogli di carta consumati per dare un volto alla Chiesa ambrosiana del futuro.
I numeri che ho citato danno un’idea sommaria della mole di lavoro che ci ha coinvolti per oltre 13 mesi. E a distanza di vent’anni ricordo ancora con gioia (anche se venata di nostalgia) l’intensità e la fraternità di quelle giornate che per molti – soprattutto per i Sinodali del forese – cominciava all’alba del sabato, per giungere puntuali a recitare le Lodi che aprivano – alle nove meno un quarto – i lavori assembleari con l’intronizzazione del Vangelo. Ad attenderci, sul fronte dell’ingresso dell’Istituto Leone XIII, c’era la gigantografia del volto severo del Cristo (Firmavit faciem suam, era il motto del Sinodo) verso il quale peregrinavamo come le antiche tribù d’Israele verso Gerusalemme.
Appena dentro – molto più prosaicamente – c’era il cartellino-presenza da timbrare, come si conviene in una città di pendolari qual è Milano; poi si ritirava la consueta e massiccia dose di carta che serviva per il dibattito in aula e per la riflessione settimanale in attesa della sessione successiva. A questo punto s’apriva davanti a noi l’immensa platea del teatro del Leone XIII che, col suo migliaio di posti, ci ha tenuto per 31 sessioni inchiodati sulle sedie per sei ore di fila (interrotte soltanto verso mezzogiorno da un pausa di mezz’ora per un frugale spuntino).
Sul palco, il cardinale Martini. Al suo fianco il segretario generale, monsignor Luigi Manganini, e il moderatore di turno (quattro laici, di cui tre donne). L’Arcivescovo ascoltava e prendeva appunti. Era il moderatore a scandire il ritmo (frenetico) dei lavori assembleari: venti minuti per i relatori delle singole aree, cinque minuti per gli interventi orali. E il segretario generale solerte ad assegnare i compiti a casa: due giorni per consegnare i contributi scritti, tre per rivedere il testo in commissione, altri quattro per votare un centinaio di pagine per volta.
A tappe forzate si giunse così a concludere i lavori in Duomo il 4 novembre 1994, solennità di S. Carlo Borromeo, durante i quali venne distribuito un Testo sinodale per l’ultima rilettura che comportò ulteriori 691 osservazioni. Il testo definitivo, raccolto in 611 costituzioni raggruppate in 26 capitoli suddivisi in quattro parti, fu consegnato ai Sinodali il 6 dicembre 1994, nella basilica si Sant’Ambrogio, unitamente alla scheda di votazione finale da restituire entro il 16 dicembre. Delle 610 schede distribuite (nel tempo il numero dei Sinodali si era ridotto per effetto della decadenza dovuta a plurime assenze) ne sono tornate 540: il Documento sinodale fu così approvato con 521 placet, 13 non placet e 6 schede bianche. Il 21 dicembre fu poi consegnato ufficialmente al cardinale Martini che lo ha promulgato il successivo 1° febbraio 1995.
Qualche ricordo? Molti e tutti piacevoli: via via che i lavori proseguivano cresceva di pari passo l’affiatamento, l’amicizia, la collaborazione. Io credo che l’icona della Chiesa degli Apostoli, che dà l’impronta finale al Libro sinodale, ben s’addice a descrivere il clima di fraternità che animava noi Padri (e le Madri) Sinodali. Unico rammarico la tirannia dei tempi troppo ristretti che ci ha impedito di gustare compiutamente la gioia di camminare insieme su strade nuove per incarnare il volto di Cristo nella nostra Chiesa ambrosiana a scavalco del secondo millennio.