La Chiesa ambrosiana in prima linea sul lavoro che manca, accanto ai lavoratori che non hanno più un posto. Lo è da tempo concretamente con il Fondo famiglia-lavoro, con le Veglie di preghiera, sul territorio con le comunità cristiane che li coinvolgono almeno per superare la solitudine e farli sentire vivi. Un modo per abbattere i bastioni della frustrazione e dell’isolamento. Ne parliamo con il sociologo della Statale, Maurizio Ambrosini.
Nell’ultimo trimestre in Brianza hanno chiuso oltre 20 imprese al giorno. Un dato che si somma a quello altissimo della disoccupazione, giovanile e non. Come vivere questo momento così duro?
L’aspetto nuovo e drammatico è proprio la perdita del lavoro. Negli ultimi decenni la disoccupazione non solo è stata relativamente bassa in Lombardia, ma era soprattutto inoccupazione e difficile occupazione di giovani, donne e di alcune fasce sociali. Mentre gli occupati, soprattutto maschi adulti, erano garantiti: una volta entrati nel mercato del lavoro, magari si cambiava posto, ma difficilmente si rimaneva senza. Questo dato è molto pesante dal punto di vista psicologico, della stima di sé, della relazione con gli altri e la società. Chi perde il lavoro tende a sentirsi inadeguato quando non lo ritrova, soprattutto in un contesto di alta occupazione. È più difficile, psicologicamente, essere disoccupato a Milano che a Napoli. Perché a Milano molti altri lavorano, tra i conoscenti, gli amici e i parenti. Anche se tutti sanno che non è colpa sua, che ci sono aspetti strutturali, in chi viene espulso dal mercato del lavoro si insinua un sentimento di colpevolezza e frustrazione per non riuscire più a svolgere un ruolo sociale, considerato centrale, in particolare per gli uomini adulti, il cui principale ruolo nella società e nella famiglia è legato proprio all’esperienza lavorativa. È il tendenziale isolamento sociale: il disoccupato si vergogna a uscire di casa, tende a perdere i contatti con gli altri. C’è gente che non dice ai figli e alla moglie, almeno per un periodo, che ha perso il posto o che lo hanno posto in cassa integrazione. C’è chi non mette più la giacca e la cravatta per mesi dopo essere sempre uscito vestito di tutto punto. Questa è la conseguenza sociale della disoccupazione.
In questo contesto quale contributo può dare la Chiesa oltre all’esperienza del Fondo famiglia-lavoro?
È giusto riconoscere che la Chiesa non ha strumenti e potere per risolvere i problemi; ammettere anche i limiti delle proprie risorse e capacità di fronte a una crisi di sistema, addirittura internazionale. Detto questo, è però giusto che la Chiesa si faccia carico del problema, testimoni la sua vicinanza, cerchi di approntare segni di solidarietà, coinvolga le comunità cristiane. Certamente il Fondo è stato ed è un’esperienza importante da questo punto di vista. Tra l’altro è partito prima che le istituzioni pubbliche si muovessero per cercare di fronteggiare la situazione. Significativo anche il passaggio da un aiuto economico per pagare le bollette a una riflessione sugli strumenti di intervento attivo (orientamento, formazione) per chi vuole cercare un altro lavoro. In una nostra ricerca su chi ha perso il lavoro in Lombardia emerge che chi ha fruito di qualche servizio, compreso il Fondo, ha trovato più facilmente un posto.
Le comunità cristiane sul territorio possono dare un contributo concreto?
Il disoccupato ha lunghe giornate che diventano improvvisamente vuote, prive di senso. Si dovrebbe fare di più nella socializzazione, aggregazione, accompagnamento di chi perde lavoro, nella consapevolezza che è difficile risolvere il bisogno centrale, però si può far sì che non si sentano soli, abbandonati, isolati, depressi, perché uno dei rischi è la privatizzazione del problema. Un esempio è quello di don Marcellino: nella sua parrocchia di S. Barnaba in Gratosoglio ha organizzato un’esperienza di piccoli lavori con una retribuzione simbolica, proprio per tirar fuori dall’inazione i disoccupati, soprattutto i più esclusi e in difficoltà.