«Se ci infastidisce ripetere molte volte argomenti usuali e da bambini, adattiamoci a chi ci ascolta con amore fraterno, paterno e materno e, così uniti in un cuor solo, anche a noi quegli argomenti sembreranno nuovi. Quando ci si vuole bene, e tra chi parla e chi ascolta c’è una comunione profonda, si vive quasi gli uni negli altri, e chi ascolta si identifica in chi parla e chi parla in chi ascolta. Non è vero che quando mostriamo a qualcuno il panorama di una città o di un paesaggio, che a noi è abituale e non ci impressiona più, è come se lo vedessimo per la prima volta anche noi? E ciò tanto più quanto più siamo amici; perché l’amicizia ci fa sentire dal di dentro quel che provano i nostri amici». (Sant’Agostino, Lettera ai catechisti, n. 13.17)
Queste felici espressioni di Sant’Agostino ci possono toccare ancora oggi come catechisti in rapporto a un certo stile nella catechesi, nella comunicazione della fede. Quante volte mi è capitato di comunicare l’annuncio della fede nella catechesi e lasciarmi prendere dall’annuncio stesso con rinnovato entusiasmo? Far risuonare la Buona Notizia vuol dire primariamente essere noi stessi cassa di risonanza di essa in noi stessi, con noi stessi. L’altro ha bisogno di vedere in noi oltre che di ascoltare da noi la bellezza e il fascino dell’evangelo.
Spesso il catechista si sente preoccupato di come svolgere il suo ruolo in modo convincente ed efficace verso gli altri senza primariamente rendersi conto che la comunicazione della fede mette intrinsecamente in gioco anche colui che annuncia nel suo modo di porgere la Parola. Potremmo anche dire che i gesti, il modo di fare, lo sguardo, il tono della voce, l’afflato che si manifesta nella comunicazione sono già in se stessi – prima ancora della Parola pronunciata, scritta, proclamata – una buona o una cattiva notizia. Occorre riconoscere la profonda circolarità tra la Parola e l’azione, tra il messaggio verbale e il meta-messaggio del corpo, dei sensi.
Più ancora la Parola che siamo chiamati ad annunciare è una Parola che, come ci ricorda la vocazione del profeta Ezechiele, va «mangiata e assimilata»: «Il Signore mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,1-3). È indispensabile nutrirsi abbondantemente della Parola, assimilarla per poterla dispensare agli altri.
Il tempo e lo spazio dedicati all’ascolto della Parola, alla lectio divina, alla meditazione personale sono necessari come l’aria che respiriamo per poter poi dare con dedizione ed entusiasmo ad altri quanto abbiamo ricevuto. La Parola va gustata come il miele, sentendone tutta la sua dolcezza e la forza del nutrimento che per noi contiene.
Poi succede qualcosa di sorprendente: che chi nutre il fratello del pane della Parola, spezza, condivide e si nutre lui stesso di nuovo, riceve un nuovo arricchimento alla luce dello scambio avuto! Davvero, allora, primi uditori della Parola del Signore siamo noi stessi! Ci basti qui solo evocare il lungo e fecondo cammino di ascolto dei primi discepoli, che alla luce della Pasqua divengono poi testimoni della Parola fino al martirio.