Nel giorno in cui si conclude l’Anno della Fede e, in Diocesi, si celebra la II Domenica del’Avvento ambrosiano, in Cattedrale il Cardinale presiede la Celebrazione eucaristica proseguendo nel percorso intitolato, per l’intero tempo che ci separa dal Natale, “Andarono senza indugio”.
Delle migliaia di i fedeli che giungono in Duomo, molti si sono ‘preparati’ attraverso l’intensa bellezza delle musiche sacre di Bach proposte, come elevazione musicale, prima della Messa. Animano la liturgia, questa settimana, l’Azione Cattolica ambrosiana e le Acli, presenti i rispettivi presidenti, Soncini e Petracca, e gli assistenti ecclesiastici, monsignor Gianni Zappa e don Raffaello Ciccone, che concelebrano.
A tutti il Cardinale rivolge il suo invito a vivere “il tempo privilegiato” che ci è dato con l’Avvento, attraverso gesti concreti e una conversione del cuore. Quel «cuore che magari, in modo confuso e ribelle, come talvolta vediamo nell’uomo postmoderno, è sempre in attesa di qualcosa, o meglio di Qualcuno». Da qui – nota l’Arcivescovo –, l’insegnamento che, se la prima attività umana è il ricevere, un simile stile deve animare l’intera esistenza. E l’Avvento «è appunto, il tempo dell’attesa di Uno in grado di rinnovare l’energia necessaria per il cammino della vita», sapendo di averla solo ricevuta e rendendo, così, sempre possibile il cambiamento.
«La venuta del Messia ci mette in grado di guardare ogni circostanza, ogni rapporto, ogni situazione come una via verso la riuscita dell’io che è la santità. Anche quando le nostre giornate sono appesantite da difficoltà e contraddizioni, interiori ed esteriori, che sembrano rodere le nostre forze e spegnere le nostre attese, il Signore che viene porta con sé la gioia, rendendo possibile la pace», spiega l’Arcivescovo.
Non a caso, la Parola di Dio scende su Giovanni Battista, nel deserto, come si legge nella pagina dal Vangelo di Luca, con un’indicazione molto preziosa anche noi cristiani per il terzo millennio: «Non sono pochi, infatti, a descrivere l’odierno contesto sociale, economico, politico, culturale e religioso con il termine di desertificazione. Ma Dio continua a spargere buon seme e lo fa senza temere il confronto con la zizzania che portiamo nel cuore e che tende a generare strutture di dipendenza, di peccato, di corruzione. Sono molti, infatti, anche nelle nostre terre, i segni di vita buona, da cui è possibile ricominciare. Accettiamo l’invito del Battista a “fare frutti di conversione”, praticando la “giustizia operosa”». Quella espressione di giustizia che, sempre nelle parole del Battista, chiede la necessità della condivisione. E sottolinea, allora, il Cardinale: «Questo è un forte richiamo al principio di solidarietà, fondamento più che mai decisivo di autentica amicizia civica, oltremodo esigita in una società plurale come la nostra. Impegniamoci di persona, con l’avvicinarsi del Natale, a quella forma semplice ma potente di solidarietà, di giustizia operosa che è l’ospitalità. Le tante opere religiose e civili di condivisione del bisogno offrono nelle nostre terre molte occasioni di ospitalità che sono alla portata di ciascuno di noi». Un “fare frutti di giustizia”, come scrive san Paolo ai Romani, che fa riferimento alla “solidarietà gratuita” secondo lo stile di Cristo, cui il cristiano deve sempre tendere. «Solo un tale stile può sconfiggere una delle piaghe più purulenti che affligge ognuno di noi, il narcisismo, questa incoercibile spinta ad autoaffermarsi, a occupare sempre tutta la scena relegando gli altri ad evanescenti comparse». Con quel credersi onnipotenti che è attualmente sentimento diffuso a ogni livello e di fronte al quale nasce «un quarto decisivo insegnamento: invocare la misericordia di fronte al nostro limite e al nostro peccato, perché tutti gli uomini sono chiamati a diventare Figli del Regno», titolo della II Domenica dell’Avvento ambrosiano.
E, alla fine, il pensiero del Cardinale va alle popolazioni duramente colpite in Sardegna e nelle Filippine, perché la solidarietà e la condivisone siano – è un suggerimento – davvero e sempre concrete.
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Non capita spesso, nell’arte che non sia moderna, di sentirsi tirati «dentro» nell’opera stessa, noi spettatori. Eppure, in questa mirabile pala realizzata da Domenico Veneziano nel 1445 per la chiesa dei Magnoli a Firenze (e oggi alla Galleria degli Uffizi), il Battista - umilmente vestito della sola pelle di cammello e ammantato del rosso del martirio - ci guarda negli occhi, e ci invita a entrare, a farci vicini al Signore che viene.
«Tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano se non fosse lui il Cristo», leggiamo infatti nel Vangelo di Luca. E il Battista lo sa, ne è consapevole, e per questo ci spinge ad andare oltre, lui che è il Precursore, indicandoci con il gesto stesso della mano dove il nostro sguardo e la nostra speranza si devono davvero posare, cioè su «colui che è più forte di me» e che «vi battezzerà in Spirito santo e fuoco». Anche se sembra solo un bambino indifeso, questo piccolo Gesù, che si stringe al collo della madre, dall’incarnato roseo e fulgido, perché già risplende quella luce che è giunta a «illuminare le genti».
Luca Frigerio
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