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Esperienze

Disponibili alle confessioni per ritrovare la speranza

Un parroco milanese rilancia l’appello scandito dall’arcivescovo Scola nell’omelia di domenica 4 dicembre

Luisa BOVE

12 Dicembre 2011

«L’uomo che smarrisce il senso del peccato si ritrova senza speranza», ha detto il cardinale Angelo Scola nell’omelia di domenica scorsa in Duomo. Quindi ha lanciato un appello ai preti – secolari e religiosi – a «rinnovare la loro disponibilità per il ministero della confessione». E ha aggiunto: «In ogni parrocchia, in ogni decanato, i fedeli debbono poter trovare in chiesa, almeno in certi orari ben definiti, sacerdoti in attesa di penitenti. E presso i santuari e le chiese maggiori la presenza del confessore deve essere continua».

Sarà un caso, ma venerdì, dopo vari tentativi e telefonate a ripetizione fino all’ora di pranzo, solo nel pomeriggio ho potuto parlare con don Davide Caldirola che si è giustificato: «Sono stato a confessare tutta mattina». Parroco di San Gabriele a Milano dal 2000 e responsabile della Comunità pastorale che comprende anche S. Maria Beltrade dal 2007, don Caldirola è uno che considera il sacramento della confessione «non “a senso unico”».

E cioè?
Non passi l’idea del prete bravo che pazientemente aspetta il penitente, gli dice belle parole, gli dà la Grazia di Dio e se ne va frustrato dopo una mattina di confessionale. Mi piace mettere l’accento su quanto impara un prete dai suoi penitenti, cioè su quanta Grazia raccoglie da chi va a raccontargli la sua vita, ad accusare il peccato, a cercare una parola di conforto. Può rasserenare e sostenere il penitente sapere che non va a dar fastidio al prete. La consegna stessa in umiltà di cuore della sua vita nelle mani di un uomo, peccatore come lui, è già in sé un atto di fiducia grande. E poi il prete cresce anche attraverso l’ascolto del peccato della sua gente nel quale si confronta, a volte si specchia e gli rivela molto della sua stessa vita e della Grazia di Dio.

L’Arcivescovo ha detto che chi smarrisce il senso del peccato si ritrova senza speranza. La confessione allora può diventare “il luogo” per ritrovarla?
Sì, perché tanti vengono per cercare il perdono dei peccati, ma anche una parola di incoraggiamento. Nella confessione mescolano spesso l’accusa del peccato, ma anche il ringraziamento e la confidenza di problemi che assillano la loro famiglia e loro stessi. Quindi cercano attraverso le parole del confessore non un giudizio, ma un incoraggiamento e una speranza, detta però non a titolo personale dal confessore, quanto a nome di Dio.

L’invito del cardinale Scola ai preti, secolari e religiosi, di garantire almeno giorni e orari prestabiliti per le confessioni è quindi la prima attenzione da avere?
Quello dell’Arcivescovo è senz’altro un invito buono, ma ci sono parrocchie in cui durante la giornata non circola nessuno oppure vie come le mie in cui, anche se rimani a lungo in confessionale indicando gli orari, non è così automatico che qualcuno arrivi. Bisogna fare i conti, realisticamente, con i tempi della gente. Questo non riguarda solo le confessioni, ma anche le celebrazioni dell’Eucaristia, tutte collocate in orari in cui possono partecipare soltanto i pensionati o chi non ha impegni di lavoro. Fino a qualche anno fa potevo fermarmi in chiesa prima e dopo le celebrazioni dell’Eucaristia, ma adesso che siamo Comunità pastorale devo correre avanti e indietro da una chiesa all’altra e non posso garantire la mia presenza.

Le difficoltà della vita, la precarietà del lavoro e i legami fragili sono a volte causa di depressione, disperazione, sconforto… Può la confessione raccogliere questi disagi senza snaturare o falsare il significato del sacramento?
Sicuramente sì. È una questione molto delicata, però essere rigorosi nel vivere il sacramento della confessione non significa essere rigidi, ma creare forzatamente uno spazio di ascolto che va al di là della confessione stessa. Il sacerdote deve essere pronto anche ad ascoltare “a vuoto” parole che non sono strettamente legate né alla confessio laudi, né alla confessio vitae, ma di cui il penitente ha bisogno. Forse anche questo fa parte dell’arte di un buon confessore.

Tra i giovani, gli adulti e gli anziani nota un approccio diverso nel vivere la confessione?
Sì e no. Certo l’anziano è più impostato, però la differenza non è tanto a livello di età. È diverso l’approccio di chi ha capito che cosa vuol dire confessarsi e di chi invece “paga la tassa”. Ma questo è trasversale, perché ci sono giovani che arrivano preoccupati soltanto di confessarsi in fretta perché sembra loro di essere in grave peccato e ci sono anziani che si preparano leggendo la Scrittura. E viceversa. Non è una questione di età, ma di coscienza cristiana. Forse ci dobbiamo preoccupare davvero di preparare bene a un sacramento vissuto in profondità e non come tassa da pagare, altrimenti non avremo penitenti che si confessano fruttuosamente, al di là del fatto che la Grazia del Signore agisce sempre.

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